MTV EMA 2015: che vi aspettavate?

A più di una decade di distanza dalla loro ultima edizione sul suolo italico (nel 2004 a Roma), si sono tenuti il 25 ottobre scorso al Mediolanum Forum di Assago gli MTV Europe Music Awards, manifestazione europea di nome ma non di fatto, dato che pochissimo spazio viene concesso ai musicisti europei, cui è dedicato un premio per il miglior artista di ogni Stato europeo (in cui è trasmessa MTV, ovviamente), mentre i riflettori sono prevalentemente puntati oltreoceano, come dimostra la provenienza prevalente di nominati e vincitori. A condurre la serata la modella e attrice australiana Ruby Rose e il cantautore britannico Ed Sheeran, lui medesimo, peraltro, risultato vincitore dei premi «Best Live Act» e «Best World Stage».

Manco a dirlo, a rubare a tutti la scena è stato (…ancora?) il cantante canadese Justin Bieber, che si è portato a casa ben cinque premi: «Best Male», per la sesta volta di fila, «Best Look», «Best Collaboration», «Biggest Fans» e «Best Worldwide Act: North America». Dopo di lui, oltre a Sheeran, solo Shawn Mendes è riuscito ad aggiudicarsi due premi («Best New Act» e «Best Push»): i vari celebri e già pluripremiati One Direction, Coldplay, Rihanna, Macklemore, per citare qualche nome, hanno dovuto accontentarsi di un premio a testa. Le votazioni, effettuate dai fan dei rispettivi artisti sul sito ufficiale della manifestazione, costituiscono (o, almeno, dovrebbero costituire) l’unica maniera di decretare i vincitori. Tuttavia, il regolamento stesso, pubblicato da MTV, indica che la società «per qualsivoglia ragione che ritenga, secondo la propria discrezione, ragionevolmente necessaria, si riserva il diritto di selezionare i vincitori a propria discrezione». Ottima mossa, MTV, ma stando così le cose, c’è sempre il rischio che rimanga qualche dubbio.

Justin Bieber e i suoi premi. Credits: news.mtv.it.

Justin Bieber e i suoi premi. Credits: news.mtv.it.

Cosa dobbiamo ricordare, dunque, di questa ventunesima edizione (o, meglio, della cerimonia di premiazione, di cui è stata data possibilità di visione dalla stessa MTV) e cosa, invece, sarebbe meglio che si tentasse di dimenticare? Tante cose, nel bene e nel male. Certo, si è assistito a una memorabile versione di Con te partirò di Andrea Bocelli, vent’anni dopo la prima apparizione della canzone al Festival di Sanremo, affiancata poco dopo (purtroppo) da una improbabile cover di Just Give Me a Reason di Pink (feat. Nate Ruess), assieme a Tori Kelly. Unica soddisfazione (?) italiana, a vincere il «Best European Act» è il «nostro» Marco Mengoni (la cosa non può che renderci felici della piega che ultimamente sta prendendo la musica non solo da noi, ma in tutta Europa). Certo, si sono visti veri e propri animali da palcoscenico esibirsi al Forum d’Assago: in ordine di apparizione, tra gli altri, Macklemore, Jason Derulo, i Rudimental e Pharrell Williams. Ma non si può cancellare il ricordo dell’impronta che hanno lasciato ai posteri, fra il resto, l’improponibile vestito (uno degli innumerevoli) di spaghetti indossato da Ruby Rose e l’immagine, sul finire della cerimonia, di un Ed Sheeran visibilmente disfatto dal caldo, ma soprattutto dall’alcol: vederlo palesemente ubriaco (anche a detta della sua stessa collega) non può che farci meditare sul senso dell’intera manifestazione.

Occorre essere sinceri: la contemplazione della ieratica figura dell’emblema dell’ebbrezza, quale è stato Ed Sheeran a fine serata degli MTV EMA, finisce inevitabilmente per muovere a compassione non solo del giovane cantautore, ma dell’intera industria musicale che gli ammicca alle spalle.

In morte di fratello Rudy

Ennesimo lutto in casa Banco del Mutuo Soccorso: a meno di due anni di distanza dalla tragica morte del cantante Francesco di Giacomo, avvenuta a causa di un incidente stradale (e a poco più di due mesi dall’emorragia cerebrale occorsa al tastierista Vittorio Nocenzi), ci ha lasciati il chitarrista Rodolfo «Rudy» Maltese; aveva sessantotto anni e da molto tempo lottava contro una grave malattia: nonostante ciò, non aveva mai smesso di suonare, sia con il Banco che con i suoi numerosi progetti solisti.

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Rodolfo Maltese. (Foto dalla pagina Facebook della band)


Nato ad Orvieto il 26 febbraio 1947, figlio d’arte, imparò sin dalla giovane età a suonare la chitarra da
autodidatta, ma intraprese anche per tre anni lo studio della tromba al conservatorio Boccherini di Lucca. La sua prima esperienza di rilievo fu con «i Tarli», poi noti con il nome di Homo Sapiens, con i quali partecipò nel 1971 al Festival pop di nuove tendenze alle Terme di Caracalla di Roma, dove conobbe il già citato Nocenzi, leader del Banco. L’anno successivo quest’ultimo lo invitò a collaborare con il gruppo alla realizzazione di uno dei suoi album più celebri, tra i migliori del rock progressivo italiano, «Io sono nato libero», che segnò l’inizio di un sodalizio durato più di quarant’anni, sino al 3 ottobre scorso, quando Rudy si è spento al Policlinico Umberto I di Roma.

Oltre al Banco, Maltese era noto per molti progetti solisti, che spaziano dal jazz al blues, dal rock alla world music, ma anche per le numerose collaborazioni con importanti artisti italiani del calibro di Angelo Branduardi e Riccardo Cocciante. Inoltre ogni anno si celebra a Roma la «Festa Maltese», evento dove artisti e musicisti amici di Rodolfo hanno la possibilità di suonare in occasione del suo compleanno. Per tributargli un degno saluto citiamo infine il bellissimo messaggio, con annessa citazione dall’altrettanto bella canzone Moby Dick, lasciato dal Banco sulla propria pagina Facebook: «Ci stringiamo in un silenzio raccolto, discreto, profondo – proprio come te Rudy. Il dolore e’ troppo, ma ti dedichiamo il sorriso che, in tanti anni, non ci hai fatto mai mancare…. E danzerai colpendo al cuore la luna

Recensione: The Gentle Art Of Being Everyone – So Long, Astoria [Pop/rock]

I «So Long, Astoria» sono una band emergente di Cesena, nata nel 2012. Se siete della zona e apprezzate il rock italiano, probabilmente ne avrete già sentito parlare: questi cinque ragazzi, infatti, hanno aperto alcuni concerti di gruppi più noti, come i Finley.

Il loro primo Ep in studio, uscito il mese scorso e intitolato «The Gentle Art Of Being Everyone», è composto da cinque tracce ispirate, secondo quanto essi stessi affermano, ai Lower Than Atlantis, gruppo rock inglese dal sound più «maturo» e sofisticato, ma sempre sulla scia di quel pop/rock alternativo che tanto piace agli adolescenti e che è stato portato in auge negli ultimi anni da artisti come i Sum 41 prima, o i Paramore poi.

E queste ultime due band vengono subito in mente ascoltando i primi brani, come I miss you (for a second) e Anne’s eyes, che in generale danno un’impressione di «già sentito» a chi ha un po’ di dimestichezza con il genere.

La scelta di Masquerade come singolo, invece, è stata quanto mai azzeccata, a causa della sonorità estremamente «catchy» del pezzo, che si insinua con facilità nella mente degli ascoltatori. Spiccano i riff di chitarra e, in tutto l’album, il talento del batterista Lorenzo Brighi, mentre l’abilità vocale del frontman Federico Gianfranti a volte è messa in ombra da una pronuncia inglese non sempre impeccabile.

Tuttavia, nel complesso, si tratta di un Ep ben realizzato, che ha concrete possibilità di diffusione in radio, soprattutto tra un pubblico giovane, sia in Italia sia all’estero.

Voto: 6,5.

So Long Astoria

Credits: Pagina Facebook «So Long, Astoria».

Diffusione della cultura in Italia: il progetto di Beppe Giampà tra musica e poesia

L’Italia è considerato uno dei paesi con il maggior patrimonio artistico e culturale. L’Italia ha dato i natali ad alcune delle menti più grandi e celebri della storia, non solo durante i secoli d’oro di Rinascimento e Barocco, ma anche in epoca moderna e contemporanea. Eppure, di tutto questo splendore non se ne parla mai, soprattutto non in Italia.

Molte sono le storie che si potrebbero raccontare: le vite degli artisti, le vicende da loro narrate in romanzi e poemi, la nascita di correnti e movimenti da semplici incontri di persone. Ma tutto ciò resta inspiegabilmente taciuto. Non solo la cultura italiana non è tutelata e preservata (proprio come è accaduto con Pompei), ma ne è impedita anche la veicolazione.

In altri paesi la situazione è ben diversa: basti pensare all’Inghilterra, dove quasi tutte le opere della Austen hanno avuto trasposizioni cinematografiche, tra opere per il grande schermo, film per la televisione, serie tv, mini-serie e documentari.

Perché non può essere così anche in Italia? Perché la cultura non può entrare nella quotidianità? Di certo, non perché non vi siano esponenti al pari della Austen.

Se realizzare progetti audiovisivi è alquanto difficile dati gli alti costi di produzione, realizzare opere musicali sembra, invece, ben più fattibile. Non c’è solo cinema, dunque, ma anche musica, soprattutto se si tratta di veicolare la letteratura. Infatti, alle origini di ogni cultura esiste uno stretto rapporto tra musica e poesia, poesia che veniva cantata e creata esclusivamente per il canto, dal quale si è solo successivamente emancipata. Ma non del tutto, e il progetto di Beppe Giampà ne è la prova.

Cover dell'album I mattini passano chiari. Credits: beppegiampa.com.

Cover dell’album «I mattini passano chiari». Credits: beppegiampa.com.

Beppe Giampà è un cantautore attivo dal 2007, anno di pubblicazione del suo primo lavoro. Dal 2012, però, ha intrapreso un interessante sentiero verso l’unione di musica e poesia italiana: nasce così «I mattini passano chiari», album che mette in musica alcuni testi poetici di Cesare Pavese, restituendo così la letteratura alla sua primordiale dimensione musicale. Questa brillante ed originale iniziativa è tutt’ora in corso e si estende anche ad altri grandi autori, quali Foscolo, Leopardi, Carducci, Pascoli e Campana, grazie a «Della fatal quiete», nuovo album che vuole riproporre l’intimismo poetico in chiave musicale e non esclusivamente letteraria e che sarà  prodotto tramite crowdfunding.

Un progetto che necessita del supporto delle persone e il cui risultato rispecchierà sicuramente la percezione della cultura italiana da parte del pubblico. Un progetto che sebbene non possa essere qui elogiato per l’aspetto artistico (in quanto lasciamo all’ascoltatore il giudizio, che comunque rimane soggettivo), è senza dubbio elogiato per la passione, la volontà e la straordinaria idea di dare nuova vita alla lirica italiana, nella speranza che il suo esempio sia seguito.

Veicolare la cultura in Italia è oggi più che mai fondamentale e quale modo migliore potrebbe esserci se non riprodurre nelle cuffie dello smartphone le immortali parole di Foscolo?

Recensione: The Migration – Ursus [Djent]

Ursus Cover Album

A volte si stenta a credere che gli artisti che oggi sono continuamente in tour, coprendo più di mezzo mondo nel giro di uno o due mesi, un tempo si son visti costretti ad esibirsi gratis nel più infimo dei locali della loro zona, pur di poter esprimere la propria passione, ovvero suonare la propria musica. Per permettere ad alcuni di loro di avere tanto successo quanto ne hanno band e cantanti di punta del momento, è giusto, anzi doveroso, supportarli e cercare di farli conoscere quanto più possibile, soprattutto se davvero meritano un minimo di attenzione.

Questa necessaria premessa serve ad introdurvi una band pressoché sconosciuta, notata per caso tra i reconditi meandri di Bandcamp, il famoso sito per musicisti emergenti: vengono da Swindon, nel Sudovest dell’Inghilterra, si fanno chiamare Ursus e hanno pubblicato il loro primo EP poco più di un mese fa. The Migration consta di sette canzoni, la cui durata oscilla tra il minuto scarso dell’intro e gli oltre sette minuti della title-track finale. I componenti (sei, di cui tre chitarre!) sono il cantante Rob Mckelvey, il chitarrista solista James Matthews, il chitarrista ritmico Dom Tandy, il terzo chitarrista Jamal Miah, il bassista Ryan Martin e il batterista Aaron Black. Citano tra le loro influenze (a loro stessa detta «pesanti», cosa che effettivamente si riscontra nel corso dell’EP) band apparentemente differenti come Veil of Maya e Intervals, Between The Buried And Me e Periphery, Korn e letlive.

La prima traccia, The Beginning, è, come detto prima, un minuto scarso di intro, al termine del quale irrompe Burn, dove un gran lavoro di chitarra (e vorrei ben vedere, ce ne sono ben tre) valorizza il cantato sporco, forse offuscando un po’ troppo l’impeccabile base ritmica di Martin e Black. Segue Demesne, in cui emerge il talento di Matthews nella tessitura dei riff; quando si accenna a rallentare, tutto si ferma in un limbo soprannaturale, che però non è destinato a durare: ecco che la settima corda torna a farla da padrone ancora più dura e cattiva di prima, se possibile.
La successiva Trascendence ripropone il medesimo bombardamento sonoro, ma con più marcate influenze death, sia nei riff che nella voce; ancora una pausa, che stavolta ci sorprende con un breve quanto pregevole assolo, che pochi potrebbero aspettarsi: è però un’impaziente batteria a riportare il sestetto sulla retta via, così, lasciando il ricordo di un buon intermezzo. Siamo al tramonto di quest’album e ci attendono, in ordine crescente, le due canzoni più lunghe dell’EP. In preparazione, sia fisica che psicologica, di ciò, il gruppo ci propone un breve fraseggio, che quasi pare un’improvvisazione, un estratto di jam session, ma va bene così, un attimo di respiro può servire. Scavenger parte subito forte, più violenta che mai: finalmente la batteria si fa sentire (eccome!), mentre le nostre chitarrone proseguono sulla loro strada, segnata da breakdowns e palm mutes; unica pecca è il finale, in cui la canzone s’interrompe bruscamente, lasciando un po’ di amaro in bocca. L’ultima traccia, la title-track, come già detto, supera i sette minuti e mostra che questo gruppo possiede anche un lato melodico, ancor più enfatizzato dalla presenza di una voce femminile, quella di Beth Humphries: l’album si chiude con un piacevole dialogo tra le sue clean vocals e le harsh vocals di Mckelvey, promettendoci ancora molto da questi outsiders del Southwest.

Dunque, il merito degli Ursus è non limitarsi al mero tecnicismo fine a se stesso, a riunire semplicemente in un informe miscuglio di chitarre a sette corde e bassi a cinque corde gli elementi eterogenei che tanto li caratterizzano. Questi artisti fanno della loro eterogeneità il loro punto di forza, carpendo da essa riff e idee utili al loro scopo e modellandoli secondo il proprio gusto estetico, il quale, a quanto ascoltato in questo EP, pare essere più che buono per una band così giovane. Promossi, per ora. Voto: 7/8.

Ursus Band

Recensione: No Place In Heaven – Mika [Pop]

Continua la favola di Michael Penniman, meglio noto come Mika: il cantante libanese naturalizzato britannico ha infatti pubblicato il 15 giugno scorso il suo quarto album «No Place In Heaven». Famoso in tutto il mondo sin dal suo primo singolo, Grace Kelly, uscito nel 2006, fa sorprendere dove sia riuscito ad arrivare quello che era un timido bambino dislessico: a soli tre giorni dall’uscita, «No Place In Heaven» è stato certificato disco d’oro in Francia, nazione che peraltro accolse la famiglia Penniman in fuga da Beirut a causa della guerra civile.
Non va trascurato che Mika, il quale ha fatto coming out nel 2012, è impegnato in campo politico e sociale, supportando le iniziative della comunità LGBTQI. In Italia, è noto per essere uno dei giudici del talent X Factor sin dal 2013.MikaIl suo è un pop insolito e abbastanza peculiare, anche se influenzato in buona parte da artisti quali Freddie Mercury, cui è dedicata Last Party, e David Bowie, oltre a tutti i personaggi ai quali si ispira, citati in Good Guys (in cui troviamo anche Warhol e Rimbaud). Un pop di chiara derivazione settantiana, un occhiolino a cantanti tra cui spicca Carole King, non menzionata a caso, visto che è nella villa di quest’ultima che è stato registrato «No Place In Heaven».

«Io non cerco uno spazio in Paradiso. Se ci sarà, bene. Se non ci sarà, bene lo stesso, mi accontenterò di stare dove sto e di essere quel che sono».

L’album consiste in poco meno di 40 minuti di pop senza troppe pretese, ma indubbiamente ben fatto, in cui è evidente l’intento dell’artista di raccontare nient’altro che se stesso, il suo passato, il suo presente e, perché no, anche giocare a prevedere il futuro. Voto: 7/8.

Recensione: The Powers That B – Death Grips [Hip Hop]

I Death Grips sono una delle band più misteriose della scena hip hop statunitense …e non ne hanno mai fatto un mistero. La storia del trio di Sacramento, formato dal rapper Stefan «MC Ride» Burnett, dal batterista Zach Hill e dal produttore Andy «Flatlander» Morin, è fatta di annunci e successive smentite (come quello della loro partecipazione all’edizione 2013 del Lollapalooza, festival al quale la band non presenziò nemmeno) messaggi criptici e finte decisioni. Il gruppo si era, almeno apparentemente, sciolto nel luglio 2014, tramite comunicato stampa. Al loro attivo aveva tre album, pubblicati in meno di due anni, ed il primo CD di «The Powers That B», intitolato «Niggas On The Moon» e uscito solo un mese prima della notizia della loro separazione. Ma, improvvisamente, lo scorso marzo la band è riapparsa, sotto forma di un account Twitter non ufficiale, e ha annunciato l’uscita del secondo CD, «Jenny Death», per il 31 dello stesso mese ed un tour in Canada e Stati Uniti nel mese di luglio. Scelta di marketing o voluttà di creare scompiglio? Difficile dirlo. Ciò che rimane è la musica ed è di quello che si può parlare.

Il genere da loro proposto è un hip hop assai sperimentale, che esplora tutti i meandri della musica moderna: dal noise al punk, all’industrial, dal metal all’hardcore. Nulla è deliberatamente escluso dalle loro composizioni, rese uniche dal multiforme stile vocale di MC Ride (che passa con naturalezza dal rap allo scream, dal sussurro all’urlo), dalle percussioni violentissime di Hill e dagli allucinati sintetizzatori di Morin. A queste qualità che caratterizzano il sound della band, si aggiunge la grande presenza scenica che riesce a dimostrare nei live, interagendo, anche in maniera aggressiva, con il pubblico, tuffandosi in improbabili improvvisazioni tra una canzone e l’altra e suonando in modo forsennato, giungendo a distruggere la propria strumentazione a fine concerto.

Il primo CD, «Niggas On The Moon», consta di otto canzoni, che vedono tutte la partecipazione, sotto forma di voci di sottofondo, dell’artista islandese Björk, nota per il suo peculiare eclettismo, oltre che per il suo stile vocale unico; risulta tuttavia meno fresco rispetto ai lavori precedenti della band. Maggior interesse desta la seconda parte del double album, «Jenny Death», che presenta un attitudine ancor più sperimentale, risultando allo stesso tempo minimale e monumentale, dalle liriche profonde e contemporaneamente potenti, esortando all’azione e non all’introspezione. «The Powers That B» chiude degnamente (anche se, conoscendoli, l’ultima parola non è ancora detta) l’esperienza musicale di questo gruppo altamente innovativo, soprattutto per un genere comunemente noto per essere abbastanza conservativo.
Dove l’eccessiva sperimentazione avrebbe potuto condurre ad una sequela di lavori di maniera, i Death Grips riescono ancora una volta a cambiare volto, stupendo e lasciando disorientato l’ascoltatore.

Voto: 8,58147099891_e102d4e11f_b

Recensione: Arcturian – Arcturus [Avant-garde]

Arcturian

A dieci anni di distanza dall’uscita dell’assai discusso «Sideshow Symphonies», gli Arcturus tornano con il botto e lo fanno con «Arcturian», sesto album in studio per la band norvegese. Il quintetto, tra i massimi rappresentanti dell’avant-garde, consta di ICS Vortex (sostituitosi nel 2005 a Garm) alla voce, Knut alla chitarra, Skoll al basso, Sverd alle tastiere ed Hellhammer alla batteria. Nelle parole dei componenti, quest’ultima fatica discografica collega il glorioso passato della band, oscurato in parte dal precedente lavoro, al suo presente, nel bene e nel male.

A rendercene conto è sufficiente una manciata di secondi dell’opener track, The Arcturian Sign. L’impatto sonoro è subito straniante per orecchie poco abituate: l’inusuale accostamento tra elettronica e black metal è reso ancora più marcato dalle linee vocali, efficaci nel creare disorientamento e il tappeto ritmico creato da Hellhammer è, come sempre, a dir poco devastante. La successiva Crashland presenta un’attitudine più melodica e Vortex può così esibirsi nel meglio delle sue clean vocals, ma il tema portante è forse spinto troppo in avanti per non risultare ripetitivo. Segue Angst (che significa ansia in norvegese, lingua in cui è scritto il testo), una delle canzoni più “metal” dell’album, dove a tratti di relativa quiete si alternano momenti di furioso sfogo vocale (ed emotivo) particolarmente riusciti, grazie anche agli spettrali effetti di tastiera. Ancora elettronica ci introduce in Warp, un’eterea dimensione di dubbi esistenziali, condensati in atmosfere e liriche decadenti: anche questa lascia l’impressione di esser durata oltre ciò che poteva offrire. Game Over è forse il punto più alto dell’album, in quanto vi si trova una summa di ciò che la band è stata ed è attualmente: melodie delicate, eseguite al pianoforte accanto a passaggi forsennati, voci quasi liriche accanto a grida di disperazione. La successiva Demon non sarebbe neanche male, grazie alle onnipresenti tastiere, che accompagnano un cantato, appunto, demoniaco: a guastarla ci pensa il testo stesso, donandoci momenti di elevato tenore poetico:« Out of luck / I don’t give a fuck / So beam me up / Or suck my cock»…davvero? Segue Pale, dalle atmosfere che spaziano dal spaventoso allo spaventato e viceversa e che riesce a regalarci qualche piacevole intermezzo, quasi a volerci comunicare che a divertirsi non è solo chi ascolta, ma soprattutto chi suona. The Jorney è una quasi-strumentale (se non prendiamo in considerazione le voci, poco meno che inudibili, che fanno da sfondo alla melodia), di cui, tuttavia, non riusciamo a figurarci il senso…filler? Archer pare voler trasportarci in un castello infestato da fantasmi (o in una lugubre chiesa abbandonata, come preferite) con la sua attitudine misterica, segreta, esoterica: gli strumenti assecondano il bisogno della voce di esprimere i pensieri quasi in un flusso di coscienza, interrompendolo solamente un paio di volte con accessi di aggressività. Chiude l’album Bane, che potrebbe dirsi un sogno di un folle trasposto in musica, di tutto un po’, letteralmente: black, polka, flamengo, (neo)classico, c’è spazio per ogni genere nella ormai collaudata formula di questa band, che ci saluta in dissolvenza, come a rimandare ad un futuro che speriamo essere prossimo.

Che «Sideshow Symphonies» sia stato un passo falso per gli Arcturus, è opinione condivisa quasi all’unanimità da pubblico ed esperti del panorama estremo: alla luce di questo «Arcturian», si può dire che la band si sia scrollata di dosso incertezze, impurità che avevano macchiato la sperimentazione di una delle band in questo senso più audaci sulla piazza? Rispondere non è facile e comunque non prescinde da un percorso personale, diverso per ognuno, soprattutto in relazione ad un gruppo tale. Pur ritenendolo complessivamente migliore del suo predecessore, rimaniamo persuasi che qualche difetto sia stato comunque perpetuato senza essere rimosso. «Arcturian» è indubbiamente un lavoro pressoché ineccepibile dal punto di vista tecnico (ciascuno dei componenti non è assolutamente l’ultimo arrivato, per quanto concerne il proprio strumento), ma ciò viene purtroppo controbilanciato da una produzione scadente (che mai mi sarei potuto aspettare da un gruppo come gli Arcturus) ed una generale sensazione di poca voglia di osare e tanta voluttà di non uscire dal seminato, che, essendo l’avant-garde un genere dichiaratamente sperimentale, non può non inficiare di molto la valutazione dell’album. Probabilmente non torneranno mai più i tempi di quel capolavoro intitolato «La Masquerade Infernale»… ma speriamo di essere smentiti. Voto: 7.

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Addio a B.B. King: un omaggio personale

Ci ha lasciati ieri, 14 maggio, B.B. King, uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi: non a caso lo si trova al sesto posto tra i 100 migliori chitarristi secondo Rolling Stone e tra gli artisti premiati con più Grammy, avendone vinti ben 14. Potrei tediarvi con una lunga cronistoria della sua vita, da raccoglitore di cotone del Mississippi a chitarrista blues di fama planetaria, o con un’ancora più lunga lista di cifre, quali album pubblicati, singoli di successo, record di vendite ed onorificenze ricevute: sono informazioni facilmente reperibili, se non su Wikipedia, in uno qualsiasi degli innumerevoli articoli scritti in queste ore a proposito del “re del Blues”, dunque non le citerò.
Pur essendo passati ormai sei o sette anni, ricordo ancora chiaramente il caldo pomeriggio estivo in cui chiesi a mio padre: Ma papà, oltre alla mamma, ti sei innamorato di altre?”. Lui mi guardò sorridendo e mi disse: Certo! Tiziana, Giulia, Lucille…”. “Lucille, papà? Era francese?”. “No, no – rispose ridendo -, era americana, ed era bellissima…”. “E come l’hai conosciuta?” “Per caso, l’ho vista in un negozio di dischi…” “E anche lei era innamorata di te?” “Eh, no, era un amore impossibile, lei era di un altro…” “E di chi?” “Di un chitarrista” “Un chitarrista?” “Sì, ma che chitarrista…aspetta te la faccio sentire!”. I suoi occhi si illuminarono e si mise a rovistare nella pila di dischi che occupa un angolo di casa mia. Ne trasse fuori un cd e, con eccezionale cautela, mista quasi a timore reverenziale, lo mise nel lettore e lo fece partire. Io stavo lì, un po’ confuso, pensando avesse una registrazione della voce di questa Lucille. Ma subito l’inconfondibile tocco di una chitarra blues mi sconvolse. Guardai mio padre con aria interrogativa. Lui rise un poco, senza burlarsi di me, poi disse:”Lei è Lucille. Ed è la più bella chitarra del mondo!” e mi fece guardare la copertina del cd. Finalmente vidi Lucille, in tutto il suo splendore di Gibson ES-335. Fu così che venni a conoscenza del leggendario B.B. King e della sua altrettanto leggendaria chitarra. Rest in blues, Riley. Il mondo non si dimenticherà di te.

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BB King e la sua Lucille

Recensione: Endless Forms Most Beautiful – Nightwish [symphonic power metal]

EFMBIn sé, i Nightwish non hanno bisogno di presentazione alcuna, essendo una tra le più famose all’interno del panorama symphonic mondiale. Endless Forms Most Beautiful, pubblicato il 27 marzo scorso in Europa, è la loro ottava fatica discografica, la prima con la cantante Floor Jansen ed il polistrumentista Troy Donockley in pianta stabile, oltre alla partecipazione alla batteria di  Kai Hahto, batterista dei Wintersun, al posto dello storico Jukka Nevalainen, che ha di recente abbandonato la band a causa di problemi di salute ed agli arrangiamenti orchestrali, affidati al produttore Pip Williams. A completare la lineup troviamo il bassista Marko «Marco» Hietala (subentrato nel 2001 a Sami Vänskä), Erno «Emppu» Vuorinen alla chitarra e colui che, non a torto, è considerato la vera mente dei Nightwish, il tastierista Tuomas Holopainen. Gran parte, se non tutto l’album che è chiaramente opera dell’ingegno compositivo di questo grande artista, la cui unica pecca è forse, talvolta, qualche eccesso di protagonismo, lo stesso che ha causato l’uscita dalla band della storica cantante Tarja Turunen, con cui, a detta di molti, la band ha sfornato i suoi capolavori (senza nulla togliere al periodo in cui è stata cantante Anette Olzon) e che ha sempre influenzato l’evoluzione del sound del gruppo.

Il titolo si ispira ad una frase, tratta da «L’origine della specie» di Charles Darwin, in cui si descrive l’evoluzione da un antenato comune sino a tutti gli esseri viventi attuali. E quale modo migliore per iniziare un disco su questo tema di introdurlo attraverso le parole dello scienziato evoluzionista Richard Dawkins? «The deepest solace lies in understanding. This ancient unseen stream. A shudder before the beautiful.» Queste ultime parole sono dunque il titolo della opening track, che lascia subito basiti: è come se la band avesse sovrapposto due tra le sue più famose canzoni, Storytime e Dark Chest Of Wonders! Con un certo disappunto passiamo avanti. Weak Fantasy è la canzone più heavy dell’album (e non a caso quella che ha visto di più la partecipazione compositiva di Marko) e anche la più apprezzabile dal punto di vista dell’originalità.
La successiva Élan (primo singolo estrapolato dall’album), pur impreziosita dalle uilleann pipes di Donockley, non riesce a celare la somiglianza della sua melodia portante con quella di Last Of The Wilds, dall’album Dark Passion Play. Segue Yours Is An Empty Hope, che, duole dirlo, è la brutta copia di Master Passion Greed, sempre da Dark Passion Play, ed in cui risulta evidente che la Jansen non ha molto a che spartire con growl e scream.
Our Decades In The Sun è una delicata power ballad, uno dei punti più alti del disco, ma…quelle non sono le voci bianche di A Lifetime Of Adventure dello stesso Holopainen? Ma dobbiamo smettere di farci domande del genere!
Si prosegue con My Walden, in cui è la voce di Marco ad introdurre un piacevole motivo celtico dal ritornello impossibile da dimenticare in breve tempo. La title-track non sarebbe neanche male, se non fosse un collage di già sentito, con veramente pochi spunti originali. Gli Edema Ruh, invenzione letteraria dello scrittore statunitense Patrick Rothfuss, sono artisti nomadi esperti nelle arti della recitazione, del canto e della giocoleria: il loro spirito si rispecchia nell’anima allegra e disimpegnata della canzone omonima, che, tuttavia, anche fosse durata la metà, non avrebbe fatto nulla di male (il medesimo discorso vale anche per The Eyes Of Sharbat Gula, ispirata alla celebre fotografia di Steve McCurry della ragazza afghana dai bellissimi occhi verdi, quasi-strumentale, purtroppo allungata a dismisura). Alpenglow, oltre a non essere nulla di speciale (checché ne dica Holopainen, definendola «la canzone definitiva dei Nightwish»), ha anche preso in prestito i synth (e non solo) da Bye Bye Beautiful.
Ma veniamo ora a parlare della controversa traccia finale di questo album: The Greatest Show On Earth è lunga quasi 24 minuti, essendo nata con la pretesa di ridurre l’intera evoluzione naturale in una sola canzone, ma questo scopo viene raggiunto con almeno una dozzina di minuti trascorsi tra citazioni della colonna sonora di Avatar e frasi lette da Dawkins e tratte dalle sue opere. Alla fine, ciò che traspare è l’inutile ed eccessiva lunghezza di una canzone, che, fillers a parte, non riesce a sprigionare tali emozioni da giustificarne l’epicità tanto ricercata e che dimostra solamente il bisogno di Holopainen di soddisfare il proprio ego, anche lasciando la fantasia a casa.

C’è poco da dire. La delusione c’è, non si può nascondere né dissimulare. Non era facile dare un seguito a quello che è stato un album teatrale, ma ben solido come Imaginaerum, ma in ogni caso le aspettative erano più che alte e, almeno per quanto ci riguarda, sono state pienamente disattese. Ma forse quello che importa è solo ciò che pensa il grande pubblico ed il fatto che Endless Forms Most Beautiful abbia raggiunto il diciottesimo posto nelle classifiche italiane (più che buono, visti i gusti imperanti nel nostro Paese), supporta l’ipotesi che, sempre più, il pubblico, ahimé, acquisti a scatola chiusa, badando solamente al nome della band più che all’effettivo contenuto dell’album. Non ci resta che chiudere, con amare parole, la recensione di quello che considero, purtroppo, il peggior album dei Nightwish dalla loro formazione ad oggi: i tempi di album come Wishmaster sono lontani anni luce. Tra i più grandi flop del 2015. Voto: 5.

Nightwish