Debutta Scream Queens, il nuovo horror comedy targato Fox

Martedì 22 settembre in anteprima su Fox sono andati in onda i primi due episodi di Scream Queens, il nuovo attesissimo horror comedy di Ryan Murphy, Brad Falchuk e Ian Brennan. L’uscita era già stata annunciata da tempo e aveva caricato il pubblico di grandi aspettative, come pochi show sanno fare.

Logo della serie. Credits: Fox.com

Logo della serie. Credits: Fox.com

La trama, apparentemente banale, è incentrata su una serie di misteriosi omicidi avvenuti nella casa della prestigiosa sorellanza della Wallace University, la Kappa Kappa Tau. Il carnefice è un assassino vestito da diavolo rosso (che scopriremo più avanti essere il costume della mascotte dell’università) che di puntata in puntata ucciderà uno dei personaggi.

La puntata pilota si apre con un flashback che ci porta indietro di vent’anni, nel 1995, ad una festa della Kappa durante la quale una delle consorelle dà alla luce un bambino nella vasca da bagno e, trascurata dalle altre ragazze, muore poco dopo per gli sforzi. A seguito di questo macabro accaduto, la narrazione si sposta nel 2015, entrando così nel vivo.
A presiedere la sorellanza ora c’è Chanel Oberlin, una ragazza ricca e capricciosa, pronta a tutto per tenersi stretta la sua corona; a metterle i bastoni fra le ruote sarà la nuova preside, Cathy Munsch, che minaccia di far crollare il castello insieme alla sua regina.

Accanto alla figura principale di Chanel ruotano una serie di personaggi minori, come le consorelle note con i soprannomi di Chanel #2, Chanel #3 e Chanel #5, e le iniziate. Tra queste spicca Grace Gardner: appena trasferitasi al college, è determinata ad unirsi alla Kappa per sentirsi più vicina a sua madre, che in passato era stata a sua volta un membro della sorellanza e che è morta lasciando la figlia di soli due anni.

Tutte le ragazze che vogliono entrare nella lussuosa sede della sorellanza dovranno superare una serie di prove terribili e crudeli (come essere sepolte fino al collo nel giardino della villa per una notte intera) e sottostare ai comandi altezzosi di Chanel. È proprio fra le nuove arrivate che troviamo alcuni dei personaggi più divertenti e particolari, come Hester, costretta a portare un busto a causa della scoliosi, o Tiffany, soprannominata la sorda Taylor Swift, fan sfegatata della pop star di cui imita il modo di vestire.

«They’re the dregs of society… “Neckbrace”, real name Hester: History major She smells like hot dog water and probably sprained her neck giving blumpkins down at the local bowling alley.»

(Sono gli scarti della società … “Collo di ferro”, nome reale Hester, studentessa di Storia. Puzza di cane bagnato e probabilmente si è slogata il collo facendo pompini nel vicolo dietro una sala da bowling)

Ispirata ai film horror degli anni ottanta, Scream Queens, che per ora vedrà una stagione composta di quindici episodi, analizza i vari omicidi e offre una serie di indizi che, incastrati uno ad uno, porteranno alla risoluzione del mistero principale: l’identità del serial killer.

Fin qui nulla di nuovo: un’ambientazione tipicamente americana, una trama prevedibile e dei personaggi stereotipati.

Cos’è, dunque, che fa brillare questa serie tv?
Innanzitutto la sua particolare comicità -molto simile a quella di Glee, per chi conosce gli altri prodotti del regista- che trasforma le tipiche scene da film horror da banali e noiose a completamente senza senso e divertenti, come la sequenza semplicemente geniale dell’incontro fra il killer e Chanel #2 interpretata da Ariana Grande, in cui la ragazza e il Red Devil si scambiano ironici sms.

«It’s like a Friends episode but someone is trying to, you know, murder old friends.»

(È come un episodio di Friends ma qualcuno sta cercando, sai, di uccidere vecchi amici.)

In secondo luogo la scelta del cast, azzeccatissima, colora i personaggi dandogli quella scintilla in più che li fa risplendere. È questo il caso dell’eccezionale Emma Roberts, che interpreta Chanel rendendola molto più di uno stereotipo trito e ritrito all’interno della cinematografia americana, conferendole così un’aura misteriosa e terrificante.

«- You’re an awful person.  – Maybe, but I’m rich and I’m pretty so it doesn’t really matter.»

(-Sei una persona orribile.  -Può darsi, ma sono ricca e carina, quindi non importa molto.)

A questo proposito, è decisamente degna di nota l’interpretazione di Jamie Lee Curtis nel ruolo della preside Munsch, una donna ricca di sfumature, determinata, intelligente e seducente, che va a letto con i suoi studenti senza farsi troppi scrupoli; fermamente convinta che Chanel e la sua sorellanza stiano avendo un influsso negativo sulle giovani ragazze del campus, è determinata a distruggerle entrambe.

«How did my life turn into this? I marched for the equal rights Amendment, I burned my bra in the middle of this campus. This generation… Have you seen the way girls dress on this campus? These sorority bitches strutting around in basically just their underwear, screaming bloody murder about being objectified, as if they haven’t objectified themselves already.»

(Come ha fatto la mia vita a diventare questo? Ho marciato per la legge sui pari diritti, ho bruciato il mio reggiseno nel bel mezzo di questo campus. Questa generazione… Hai visto come si vestono le ragazze di questo campus? Queste stronzette della sorellanza che se ne vanno in giro praticamente in intimo, urlando come delle pazze di essere trattate come degli oggetti, come se non lo avessero già fatto loro.)

Un cast veramente talentuoso, insomma, che mette in scena una serie di personaggi, ciascuno con dei tratti particolari che contribuiscono ad arricchirli e a tenerli lontani dal rischio di essere banali o scontati e che ravviva un’ambientazione già nota nel panorama americano, quella del campus universitario.

Elementi che, mischiati insieme, danno vita ad un prodotto intrigante, comico, avvincente e decisamente interessante, almeno questo è quello che traspare dalle prime due puntate.

Per ora, possiamo dunque dire che Ryan Murphy ha saputo tener fede alle aspettative create e che non ci ha per niente deluso, anzi ha potuto aggiungere alla sua collezione il nome di un nuovo potenziale successo.

Intervista ad Alessandro Roja, star di Romanzo Criminale e 1992

Non importa che tu sia in vacanza: se il fato decide di farti lavorare non puoi fare altro che piegarti. Ero in Calabria e in spiaggia ho incontrato Alessandro Roja, protagonista di serie tv di successo come Romanzo criminale e di importanti film come Magnifica presenza di Ozpetek o I più grandi di tutti di Paolo Virzì (il fratello di Carlo). Avendolo ammirato in 1992, la serie evento prodotta da Sky sulla stagione di Manipulite e della mafia stragista, non ho potuto fare altro che avvicinarlo e fargli qualche domanda.

Come è nata la sua collaborazione per 1992?

All’inizio, mentre stavo girando ancora un altro film, mi hanno chiamato per un provino, che andò molto bene ma subito ci si incappò in un problema frequente nel mio campo, il fisico. Questo ruolo, che non era ancora quello di Rocco Venturi che avrei poi interpretato, era un personaggio di una certa stazza, alto e con un fisico possente, Pietro Bosco, che fu poi affidato al talento di Guido Caprino, proprio perché io non possiedo queste caratteristiche fisiche. A quel punto la mia avventura con questo nuovo progetto di Sky sembrava terminata, invece inaspettatamente mi chiamò il produttore Lorenzo Mieli, mentre erano ancora in fase di scrittura, e mi parlò di questo nuovo personaggio che era un trait d’union tra i due protagonisti interpretati da Stefano Accorsi e Domenico Diele e, dopo una bellissima riunione con il mio agente e gli sceneggiatori, mi affidarono questo ruolo. Fui molto contento perché era l’occasione per lavorare nuovamente con Sky e per far dimenticare quel personaggio fantastico che avevo già interpretato in Romanzo Criminale.

Ci parli un po’ del suo personaggio e del ruolo che ha nella storia: Rocco Venturi è in prevalenza una figura positiva o negativa?

Io penso che la vera forza di queste nuove serie sia un po’ dire la verità sull’essere umano, nessuno è effettivamente buono o cattivo, dipende da come queste persone si comportano in determinate situazioni. Rocco Venturi fino a quel momento riusciva a gestire i suoi demoni ma nel ’92 si è trovato di fronte a possibilità molto ampie, come conoscere i segreti di molte persone potenti, e la sua vita, non raccontata del tutto, celava sicuramente dei problemi di droga, di alcol e di dipendenza da gioco (che poi lui racconterà ad uno dei protagonisti) e proprio in quell’anno ha trovato le chance per poter mettere tutto a posto con dei colpi. Il problema è che poi da predatore diventa preda, succube di un sistema sempre più cinico e smaliziato. Quindi è un personaggio ambiguo, un funambolo che vive in bilico tra il bene ed il male.

Nel personaggio di Rocco Venturi ritrova qualcosa di ? Ci sono lati del suo carattere in cui si rispecchia?

Per la mia scuola e anche personalmente sono portato ad azzerare quello che può essere il mio giudizio nei confronti del personaggio e ad avvicinarlo a me il meno possibile. Poi penso che mi imbarazzerebbe molto fare qualcosa che assomigli a me, mentre al contrario il divertimento sta nel fare qualcosa che non ti senti vicino. Sinceramente penso che Rocco Venturi non mi assomigli per nulla, come d’altronde tutti gli altri personaggi che negli anni ho interpretato, sono le varie suggestioni di chi sta fuori a cui piace pensare che in realtà ci sia qualcosa di mio, ma fa parte del gioco, o almeno a me piace pensarla così.

Il ruolo de «Il Dandi» che ha interpretato in Romanzo Criminale, l’ha fatta conoscere ad un pubblico ben più ampio: quali sono le maggiori differenze o punti in comune tra quel personaggio e invece Rocco Venturi di 1992, se ce ne sono?

Umanamente le caratteristiche dei due personaggi sono molto diverse. Sicuramente c’è qualcosa che è al di fuori del personaggio, che è l’ambiente lavorativo, un ambiente che aveva voglia di raccontare dei personaggi di un certo tipo, con uno spessore e un particolare punto di vista, quindi questo può essere un punto in comune. I personaggi specifici però penso che non condividano assolutamente nulla.

Nell’anno 1992 lei era molto giovane: si ricorda bene i fatti di «Mani Pulite» raccontati nella serie?

Io sono del ’78, all’epoca ero ancora un ragazzino appunto, però ricordo molto bene quei fatti. Era un periodo storico e un momento in cui la televisione era centrale nella vita degli italiani, e ho nitidi ricordi di Di Pietro, del pool di «Mani Pulite», e ricordo anche la voglia dell’Italia in quel momento di cambiare un po’ le regole. Purtroppo il risultato è quello che vediamo oggi quindi forse non ne abbiamo colto l’occasione. Girando la serie, proprio perché sono stati molto precisi a riportare gli avvenimenti storici accaduti, ho potuto comunque rivivere quei fatti e penso che ciò sia importante, questa serie è un ottimo pretesto per non far dimenticare agli italiani un periodo ambiguo e burrascoso della storia della Penisola.

Dopo il successo internazionale di 1992, che altri progetti ha? Lavorerà ancora con Sky?

Con Sky ho un ottimo rapporto e quindi spero di consolidarlo ancora di più, perché sono sempre in grado di mettermi personaggi molto interessanti in mano. Per il futuro invece ho appena finito di girare un’opera prima dal titolo Solo per il week-end che è stata proprio adesso in concorso al Festival del Cinema di Montrèal, del regista Gianfranco Gaioni, in arte Director Kobayashi, citando I soliti sospetti, mentre ad Ottobre andrà in onda per Rai 1 una nuova serie televisiva in ventiquattro puntate, intitolata È arrivata la felicità, diretta da Riccardo Milani e Francesco Vicario dove compariranno oltre a me, tra tutti anche Claudio Santamaria e Claudia Pandolfi. Quest’ultima serie è molto importante perché è scritta da Ivan Cotroneo, che è una delle nuove penne del cinema italiano e ha una visione molto contemporanea.

Credits: Flickr
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Recensione: Galavant, un originale musical medioevale

Sir Galavant è un abile cavaliere, l’eroe più forte e coraggioso dei cinque regni, un uomo valoroso, bello da impazzire, sempre pronto a soccorrere una donna in pericolo. Il suo cuore appartiene a Madalena, una giovane dal viso angelico, insieme alla quale abita in un piccolo villaggio popolato per lo più da contadini. I due vivono felici e contenti, nutrendosi dell’amore che hanno l’uno per l’altra, fino a quando, un giorno, il perfido re Richard decide di rapire Madalena e costringerla a sposarlo, promettendole ricchezza e potere. Il giovane eroe è quindi determinato a riconquistare il cuore della sua amata e a riportarla a casa.

Fino a qui la trama sembra quella di una classica vecchia favola, con cavalieri, donzelle in pericolo e sovrani perfidi e prepotenti; ma questa serie tv ha dei tratti molto più particolari e decisamente unici. Il primo fra tutti è la musica: Galavant, infatti, è una commedia musicale, in cui scene regolari si alternano a brani cantati e coreografati, in una sorta di «musical medioevale».
Trasmessa dalla ABC, è andata in onda in America dal 4 al 25 gennaio 2015 durante la pausa invernale di Once Upon a Time, altra serie di successo del canale, mentre in Italia rimane inedita. Pensata come una sorta di intermezzo per ingannare l’attesa dei fan di C’era una volta, Galavant ha in realtà dimostrato un grande potenziale fin da subito, distinguendosi come qualcosa di innovativo e assolutamente originale nel suo genere: una commedia che ha come protagonisti i classici personaggi della fiaba, ma stravolti completamente nei loro principali tratti distintivi.

Così, l’impavido cavaliere, una volta persa la sua dama, abbandona le sue imprese diventando un ubriacone pigro e depresso che pensa solo a bere e a mangiare, mentre la bella Madalena, dall’aspetto dolce e gentile, si rivela essere una donna malvagia e prepotente. Senza dubbio, il personaggio più innovativo e comico dello show è re Richard, che dovrebbe ricoprire il ruolo di antagonista spietato e senza cuore, ma che, invece, si rivela essere ingenuo, sensibile e poco virile: i riflettori dello show che dovrebbero essere puntati tutti su Galavant, da cui peraltro la serie prende il titolo, vengono così spostati per illuminare questo sovrano totalmente fuori dal comune, il quale si aggiudica il titolo di personaggio più riuscito della serie.

«And now, like every great king that has come before us, we shall choose a champion to fight in our stead while we watch from a safe distance while sloppily eating over-sized turkey legs.»
(E ora, come ogni grande re prima di noi, sceglieremo un campione che combatta al posto nostro mentre noi ci godiamo lo spettacolo a debita distanza, mangiando enormi cosce di tacchino.)

«Never start a marriage with a kidnapping. Both of you promise me that right now.»
(Mai cominciare un matrimonio con un rapimento. Promettetemelo tutti e due, adesso.)

Il vero punto di svolta, però, è costituito, appunto, dalla musica. Ogni puntata è costellata da numeri musicali brillanti, freschi e simpatici, contagiosi e intessuti di doppi sensi, che fanno venir voglia di cantare e ballare. Un medioevo decisamente insolito insomma, con pirati sbandati e sperduti, un sovrano tenerone e poco minaccioso e frati canterini; tutto caratterizzato da una comicità nuova e fresca, che ci spinge a seguire con leggerezza e umorismo le avventure dei personaggi, a ridere di loro e con loro.

«Oh, my tummy hurts. That was a long song.»
(Oh, mi fa male il pancino. Era una canzone bella lunga.)

Dunque, i pregi di questa serie prevalgono su quei piccoli difetti che ogni tanto stridono, tra cui si annovera, in primo luogo, il protagonista della nostra fiaba che di fatto non è un vero e proprio protagonista, oscurato dalla simpatia dell’ingenuo sovrano Richard.
Un altro punto a sfavore potrebbe essere la trama troppo semplice e sbrigativa, che rischia di consumarsi tutta nella prima stagione -composta da otto puntate da venti minuti circa- lasciando un grosso punto interrogativo per la stagione successiva, confermata a maggio.

Fortunatamente, tra le caratteristiche positive di questo programma spicca il talento degli attori, a volte anche molto famosi. Ne sono un esempio Ricky Gervais, artista e sceneggiatore britannico conosciuto per il suo ruolo in Una notte al museo, che qui veste i panni del mago Xanax, e Rutger Hauer che interpreta, invece, Kingsley, fratello maggiore di re Richard, dopo aver recitato in numerosi film tra cui Blade Runner di Ridely Scott. Oltre al grande cast, la simpatia dei personaggi, le melodie orecchiabili delle canzoni e la particolarità di alcune situazioni comiche, fanno sì che Galavant si aggiudichi un posto, seppur non preminente, nella lista di serie tv che devono essere guardate.Galavant

Scream Queens, un nuovo successo per Ryan Murphy?

Può una serie televisiva far parlare di sé ancora prima della sua messa in onda?
Sì, se viene pubblicizzata bene, con i giusti mezzi (poster allettanti e trailer ben studiati) per attirare i telespettatori: è proprio questo il caso di Scream Queens, l’ultimo prodotto della Fox che approderà sulle televisioni americane il 22 settembre, in anteprima.

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Cos’ha questa serie tv di così tanto speciale? Sono parecchie, in realtà, le qualità che sembra possedere da far crescere così tanto l’interesse e l’aspettativa verso il primo episodio: prima di tutto il suo ideatore, Ryan Murphy, già conosciuto per serie di successo come Glee e American Horror Story e The Normal Heart, film per la televisione andato in onda sulla HBO.
Il secondo punto a favore va ad un cast decisamente promettente, tra cui spiccano sicuramente Jamie Lee Curtis, conosciuta per film di successo come Un Pesce di Nome Wanda e Quel pazzo venerdì, Emma Roberts, apparsa in American Horror Story, la star di Glee Lea Michele e Ariana Grande, cantante pop di gran successo.
A tutto questo si aggiunge quella che sembra essere una trama molto avvincente: tutto ruota intorno ad una confraternita, la Kappa, gestita da Chanel Oberlin, la classica ragazza popolare, invidiata ed ammirata da tutti, che si occupa di «iniziare» con pratiche strane e spesso crudeli le studentesse che vogliono entrare a far parte di questa prestigiosa congregazione; è proprio nella casa in cui avvengono le selezioni che un serial killer perseguiterà le ragazze, commettendo omicidi e seminando il panico in tutto il campus.

Un’ambientazione tipicamente americana, quindi, quella del campus universitario, immenso e ricco di intrattenimenti, fa da sfondo ad un mistero spaventoso e intrigante, che vede protagoniste un gruppo di ragazze impaurite e spaesate, che, davanti all’orrenda maschera del loro assassino, non possono far altro che urlare (da cui il titolo, appunto).

Quello che ci viene proposto nei trailer rilasciati dalla Fox sembra essere un mix di horror e umorismo, una trama intricata e difficile da sciogliere; gli intrecci interessanti tra i personaggi, gli omicidi, le battute pungenti e divertenti sembrano essere incastrati alla perfezione per creare una nuova serie televisiva decisamente all’altezza degli altri lavori del regista, che dopo Glee e American Horror Story vuole aggiungere una terza grande serie al suo elenco.
Ci riuscirà?
Per il momento possiamo solo augurarci che non sia tutto molto fumo e poco arrosto.

Tangentopoli diventa una serie Tv: chapeau a Sky

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Facciamo un salto indietro nel tempo: è il 17 Febbraio 1992, l’ingegner Mario Chiesa, membro di peso del Partito Socialista Italiano, viene fatto arrestare dall’ancora sconosciuto magistrato Antonio Di Pietro. L’accusa: aver accettato una tangente pari a 7 milioni di lire. Questo è l’inizio della grande inchiesta nota come Mani Pulite. Da questa premessa però parte anche «1992», la nuova serie televisiva di Sky. La aspettavamo da mesi e se ne parlava da anni, e giusto lo scorso 21 Aprile è stata trasmessa la decima e ultima puntata.
La pay Tv Sky, reduce dal successo italiano delle due stagioni di «Romanzo Criminale» (2008-2010) e da quello internazionale della serie «Gomorra» (2014), decise, in collaborazione con Wildside e La7, di avallare un’idea dell’attore Stefano Accorsi: raccontare le controversie della Repubblica Italiana in un anno per lei cruciale, il 1992 appunto.
Quella che è stata bollata come «la serie su Tangentopoli» in realtà sfrutta questo evento come sfondo alle vicende di sei personaggi: l’astuto e senza scrupoli pubblicitario Leonardo Notte che lavorando nella Publitalia di Marcello Dell’Utri deve trovare una soluzione per salvare «la Repubblica delle banane» cercando una nuova figura politica che risollevi il tasso di gradimento del pubblico; Pietro Bosco, un reduce della Guerra del Golfo che quasi per errore entra in politica all’interno della Lega Nord; Beatrice Mainaghi, figlia di un ricco imprenditore, che intreccia un rapporto con Luca Pastore, un poliziotto collaboratore di Di Pietro che cerca vendetta dopo aver contratto il virus dell’Hiv per colpa di una trasfusione di sangue infetto; Veronica Castello, giovane e bella che vuole ottenere attraverso qualsiasi mezzo un posto in televisione e Rocco Venturi, un altro poliziotto che pare avere molto da nascondere.

Muovendoci tra Milano e Roma vengono analizzati bene gli aspetti dell’Italia del periodo: una classe politica per lo più corrotta che si affaccia ormai verso la propria fine per lasciare spazio a nuovi partiti, un ambiente televisivo sporco e spietato dove non esiste meritocrazia ma soltanto risultati ottenuti in seguito a favori e simpatie. Si vive un clima di generale stanchezza nei confronti dell’imperante arrivismo, aiutato anche dai toni grigi e spenti della fotografia. Via via che la storia procede però si vede l’opinione pubblica spostarsi sui nuovi orizzonti politici rappresentati dalla neonata Lega Nord che stava acquistando sempre più importanza e sul personaggio, qui solo una presenza marginale, di Silvio Berlusconi che di lì a meno di due anni fonderà Forza Italia, e il resto è storia. Ogni puntata si svolge nell’arco di un mese così da arrivare all’ultima quando, a metà dicembre, l’ex Presidente del Consiglio Bettino Craxi riceve il suo primo avviso di garanzia, momento cruciale dell’indagine di Mani Pulite, che decreterà la cosiddetta fine della Prima Repubblica italiana. Ai fatti di cronaca si mescolano perfettamente le vicende fittizie fondamentali legate ai protagonisti, personaggi inventati ma più che mai verosimili.
L’intenzione principale della serie è di farci notare come alla fine la situazione in Italia non sia oggi così diversa, e che effettivamente con il passaggio alla Seconda Repubblica l’atteggiamento politico sociale rimanga il medesimo di allora. Quindi la critica è affilata come un rasoio ma anche molto intelligente, perché non dà mai un giudizio di parte, lo spettatore non si può schierare ma si rende conto della natura opportunistica dell’uomo in quanto tale, e ne è nauseato.
Uno dei punti di forza è la varietà di toni: dal drammatico al thriller/giallo, passando per la satira intelligente. È impegnativa ma coinvolgente, merito dei registi Giuseppe Gagliardi e Alessandro Fabbri, nonostante alcune volte paia non arrivare ad una conclusione. Quest’ultima è una delle poche pecche della serie, sottolineata anche dal finale di stagione passato quasi in sordina. La qualità rimane comunque molto alta grazie al buon cast. Tra tutti spiccano Stefano Accorsi, ovviamente, uno dei big del panorama attoriale italiano ormai da anni, che riesce a donare al suo dottor Notte un fascino inconfondibile e un arguto cinismo nonostante alcune volte si cristallizzi troppo sulla figura da playboy sempre pronto a uscire di scena con una frase ad effetto, e Guido Caprino, una rivelazione che, dopo essersi fatto conoscere grazie a un ruolo interpretato in un’altra serie di Sky, «In Treatment», qui dà il massimo regalando spessore e profondità al personaggio di Pietro Bosco, che dietro l’apparenza di rozzo ignorante nasconde bontà, umanità e molta più onestà di tanti altri. Tra i comprimari poi, si riconferma dopo il ruolo da co-protagonista nelle due stagioni di «Romanzo Criminale», Alessandro Roja che riesce a rendere il suo personaggio Rocco Venturi un subdolo e freddo calcolatore, mentre ha destato diversi dubbi l’interpretazione di Tea Falco che mantiene la recitazione sempre sullo stesso tono di voce monotono.
È efficace invece la colonna sonora originale di Davide Dileo, in arte Boosta, seconda voce e tastierista della band elettronica Subsonica, in particolare la breve sigla. In ogni puntata sono stati inseriti, poi, brani pop risalenti ai primi anni Novanta che contribuiscono a rendere l’atmosfera dell’epoca.

In definitiva il risultato di questa produzione, nonostante non eguagli la precedente «Gomorra», che rimane uno dei migliori prodotti televisivi italiani in assoluto, è di alto livello, ma soprattutto è internazionale, essendo stata trasmessa contemporaneamente in cinque paesi europei. Possiamo solo augurarci che sia un buon punto di inizio per aprire sempre più le produzioni italiane al mondo intero.

Recensione: Le regole del delitto perfetto (How To Get Away With Murder)

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Good morning. I don’t know what terrible things you’ve done in your life up to this point, but clearly your karma’s out of balance to get assigned to my class. I’m Professor Annalise Keating, and this is criminal law 100. Or, as I prefer to call it … How to get away with murder.

Buongiorno. Non so quali cose terribili abbiate fatto nella vostra vita fino ad ora, ma ovviamente il vostro karma è sbilanciato se vi siete iscritti a questo corso. Sono la professoressa Annalise Keating e questo è diritto penale. O, come preferisco chiamarlo io …Come cavarsela con l’omicidio.

Una buona serie televisiva dovrebbe catturare l’attenzione già dai primi minuti della puntata pilota, spingendoci a non staccare mai gli occhi dallo schermo: è il caso di How To Get Away With Murder, (in italiano tristemente tradotta come Le regole del delitto perfetto, legal drama americano che ha debuttato lo scorso settembre sulla ABC e che con le sue quindici puntate ha raccolto milioni di telespettatori.

Quella che all’apparenza potrebbe sembrare una semplice festa scolastica americana, con cheerleaders, musica, ragazzi che ballano e bevono attorno ad un enorme falò, nasconde in realtà qualcosa di ben più inquietante e accattivante. Qualche chilometro più in là, infatti, lontano dal fracasso della musica e dai festeggiamenti, quattro ragazzi nel bel mezzo di un bosco in piena notte discutono fra di loro, in preda al panico, mentre cercano di trovare una soluzione a quello che si presuppone essere un crimine terribile. La parola murder (omicidio) risuona nell’aria e rimane incisa nella nostra mente, solleticando la nostra curiosità; poi, uno dei ragazzi decide di lanciare una moneta: «testa o croce, torniamo a prendere il corpo e ce ne disfiamo o lo lasciamo dov’è»; mentre la moneta volteggia nell’aria quattro paia di occhi sono fissi ad osservarla: il loro destino riposto in una cosa così piccola! Una mossa falsa e potrebbero essere scoperti. Ed è proprio qui che la narrazione si interrompe, con l’immagine della moneta che si muove senza rivelarci la sua faccia, riportandoci indietro di tre mesi e rivelandoci che, quelli che all’apparenza potevano apparire come frammenti confusi di ricordi sono in realtà dei flashforwards, ovvero delle scene che proiettano in avanti la trama rispetto al resto della narrazione.

Creata da Peter Nowalk, produttore di Grey’s Anatomy e Scandal, questa serie è nota a molti per la partecipazione di Viola Davis, candidata agli Oscar del 2011 come miglior attrice protagonista per The Help, che con la sua interpretazione ha sicuramente contribuito a far schizzare verso l’alto il numero di ascoltatori. Annalise Keating, donna tanto elegante quanto temibile, è un avvocato difensore di successo e una stimata professoressa di diritto penale alla Middleton University di Philadelphia; rispettata e allo stesso tempo temuta dai suoi colleghi per la sua fama, insegna ai suoi studenti le tecniche che permetteranno loro di portare a casa la vittoria ogni singola volta. Ma il corso della Keating si distingue da quello di tutti gli altri, poiché la docente sceglie cinque ragazzi per bravura e intelligenza e li porta con sé nel suo studio e in tribunale, dando loro la possibilità di imparare sul campo: «A differenza dei miei colleghi non vi insegnerò come studiare la legge o come teorizzarla, ma piuttosto come metterla in pratica … in aula, come un vero avvocato».

Sebbene non ci sia un vero e proprio personaggio principale, gli episodi ruotano intorno alle vicende personali del gruppo di ragazzi e del loro mentore. Ogni puntata analizza un caso giudiziario diverso, preso a carico dall’insegnante e dai suoi alunni, scava nella vita privata dei personaggi e presenta stralci della notte del falò con cui si è aperta la serie, rendendo in questo modo la trama sempre movimentata e mai banale.
Il fulcro dell’intera stagione è posto su un caso particolare, l’ omicidio di una studentessa, strangolata e trovata morta in una cisterna d’acqua in un campus universitario; piano piano vengono presentati e messi insieme i vari pezzi che porteranno alla risoluzione di questo crimine, che si rivelerà sempre più complesso.
Il merito di un successo così grande va attribuito, oltre che alla trama ricca di particolari e colpi di scena, alla bravura dell’interpretazione di Viola Davis, che dà vita ad un personaggio forte e determinato come Annalise, una donna in carriera pronta a tutto, quasi terrificante, all’apparenza fredda e calcolatrice che, in realtà, nasconde segreti e paure che affioreranno con il passare degli episodi.

Già dalla prima puntata questa serie si dimostra essere nuova e fresca, originale e molto ben studiata; la trama, all’inizio una matassa confusa di fili che si districa con una lentezza quasi dolorosa per lo spettatore, ci rivela mano a mano piccoli particolari che, messi insieme, contribuiranno a portarci alla risoluzione finale. How To Get Away With Murder, con i suoi plot twist, i suoi particolari ben studiati, la sua giusta dose di passionalità e mistero offre a chi ha la devozione di seguirla un giusto mix di adrenalina, sorprendendo ogni volta che si crede di essere arrivati alla giusta conclusione; una serie televisiva che ci fa venir voglia di abbandonare qualsiasi impegno e semplicemente rimanere incollati allo schermo ad arrovellarci su come si possa risolvere la trama.

Recensione: The Normal Heart, l’amore oltre la malattia.

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Fire Island, 1981, una festa sulla spiaggia, musica, giochi e tanto divertimento; un gruppo di uomini può finalmente godersi il sole, il mare e la propria sessualità, senza paura o vergogna, mostrando con orgoglio il proprio corpo, la propria bellezza giovanile e il proprio amore. Risate, battute, sguardi languidi, costumi attillati, amici e divertimento: c’è un’atmosfera carica di ottimismo, di giovinezza, di voglia di vivere e di essere liberi, un mix di serenità e spensieratezza che sembra essere immune a qualsiasi male.
Eppure questa giornata perfetta nasconde già il principio di un disastro, di un male oscuro che causerà milioni di vittime: comincia così, con un ragazzo che ha un malore sulla spiaggia, accasciandosi a terra sulla sabbia, con una debolezza inizialmente attribuita ai raggi forse un po’ troppo caldi del sole o allo sforzo fisico. Quello che all’apparenza può sembrare come un semplice giramento di testa nasconde in realtà qualcosa di terribilmente letale, una malattia senza pietà che in poco tempo si diffonderà in tutto il mondo.

The Normal Heart, film per la televisione diretto da Ryan Murphy, racconta proprio lo sviluppo e la diffusione dell’AIDS, la malattia del sistema immunitario che ha provocato negli anni ottanta milioni di morti; basato sull’omonima opera teatrale di Larry Kramer del 1985, mette in scena le lotte politiche e quelle scientifiche, l’amore e la morte, le difficoltà di una comunità che vede morire giovani ragazzi come se niente fosse.

«We’re losing an entire generation. Young men at the beginning … just gone. I keep screaming inside “why are they letting us die? why is no one helping us? “And here’s the truth, here’s the answer: they just don’t like us».
Stiamo perdendo una generazione intera. Uomini giovani, all’inizio della loro vita … andati. Dentro di me continuo ad urlare “perché ci stanno lasciando morire? perché nessuno ci sta aiutando?” Ed ecco la verità, ecco la risposta: semplicemente non gli piacciamo.

Ned Weeks, interpretato da Mark Ruffalo, è uno scrittore tagliente, pronto ad inseguire la verità, a dire sempre, senza paura, quello che pensa; polemizza, discute, scrive, è la vera anima della lotta contro il contagio e, soprattutto, contro la politica americana che si rifiuta di donare fondi per la ricerca di una cura, politica che se ne sta immobile a guardare migliaia di persone morire nell’indifferenza.
Ned poi fonda la Gay Men’s Health Crisis, un’associazione che si occuperà sia di diffondere le poche informazioni raccolte sulla malattia, sia di sensibilizzare i cittadini, in particolare il sindaco della città e tutti coloro che non credevano che la malattia fosse trasmissibile sessualmente.

«Weakness scares the shit out of me. If I can do it I don’t understand why everyone else can’t do it too».
La debolezza mi spaventa da morire. Se posso farlo io non capisco per tutti gli altri non possano.

Perennemente in lotta, desideroso di cambiamenti, Ned è l’unico che ha il coraggio di alzare la voce, di parlare apertamente nelle interviste, di attaccare rappresentanti importanti del governo americano; la sua vita verrà completamente sconvolta dall’incontro con Felix Turner, il bel giornalista dagli occhi azzurri del New York Times.
E’ proprio questa intensa storia d’amore, incrollabile anche di fronte alla malattia, a rendere il film unico e speciale, ricco di momenti drammatici e toccanti, capace di trasmettere ogni singola emozione alla perfezione.
Al successo del film contribuisce, naturalmente, anche la recitazione dei protagonisti: e qui non possiamo non lodare la commovente interpretazione di un affascinante Matt Bomer, premiato ai Golden Globe come miglior attore non protagonista. Si tratta di un premio decisamente meritato per lo sforzo fisico e mentale, in quanto il suo personaggio, Felix, cadrà vittima del virus, subendo un lento deterioramento, che lo vedrà ridotto praticamente pelle e ossa. Ci sono dei momenti, nel film, in cui la sofferenza del personaggio viene espressa tramite semplici gesti del corpo, non solo attraverso le parole e gli occhi, sempre più spenti e nebulosi, così diversi da quelle due stelle azzurre che ci vengono presentate all’inizio della pellicola.
Ma The Normal Heart non è solo amore e politica, è anche lotta scientifica: quella, in particolare, della dottoressa Emma Brookner, interpretata da una Julia Roberts a dir poco straordinaria. Condannata alla sedia a rotelle dopo aver contratto la poliomielite, Emma è un medico determinato ad aiutare il maggior numero di persone, decisa ad abbattere qualsiasi barriera costruita dal pregiudizio, una donna forte e determinata che vedrà morire migliaia di pazienti davanti ai suoi occhi, sentendo sulla sua pelle il dolore di quei ragazzi, impauriti e soli di fronte alla morte.
Decisamente degna di nota è anche l’interpretazione di Mark Ruffalo, che dà vita al personaggio principale, quel Ned che rappresenta l’autore stesso dell’opera. Tra i personaggi secondari, mi sento in dovere di fare i complimenti a Jim Parsons, conosciuto praticamente da tutti come Sheldon Cooper, il genio protagonista della serie Big Bang Theory; in questo film ha saputo dimostrare che far ridere non è il suo unico talento,che è in grado, anzi, di regalarci emozioni vere e profonde, lasciandoci con gli occhi leggermente umidi.

Che dire, The Normal Heart, con il suo mix di amore, drammaticità e determinazione, ha saputo veramente colpire i telespettatori superando il suo più grande rivale, Philadelphia. Diretto da Jonathan Demme e uscito nel ’93, narra la vicenda di un brillante avvocato che contrae la malattia e che, per questo, verrà licenziato. Mentre Philadelphia si concentra più sulla battaglia legale, sulla conquista di una vittoria contro la discriminazione, la pellicola della HBO approfondisce la sofferenza dei malati e degli innamorati.
L’unico peccato è che sia stato trasmesso sul piccolo schermo, limitandone la circolazione. Per il resto, tuttavia, ha saputo dipingere perfettamente la disperazione di un uomo che vede piano piano svanire colui che ama, di una lotta contro la discriminazione e l’ignoranza che, nonostante tutto, perdura ancora oggi, di una determinazione posseduta da pochi e di una forza di volontà da cui prendere esempio. Ingredienti ottimi presi singolarmente, resi ancora più forti ed efficaci se mescolati insieme, dando vita ad un’opera veramente particolare e decisamente ben riuscita.

Recensione: Sherlock (serie tv)

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Se il ‘900 è stato il secolo del cinema, il ventunesimo secolo ha tutti i presupposti per diventare l’era delle serie televisive, la cui produzione aumenta sempre di più, soprattutto negli Stati Uniti. Attori del grande schermo, nomi importanti, come Kevin Spacey o Matthew McConaughey, diventano i protagonisti di mini serie che appassionano milioni di persone. Il successo non sembra dipendere dal genere: che siano horror, comedy, romantiche o drammatiche, i fan che raccolgono dopo le prime puntate sono tantissimi.
Seguire una serie richiede dedizione, costanza, attenzione e soprattutto tanta pazienza: bisogna sopportare le interruzioni, note in gergo come hiatus, aspettare un certo arco di tempo per la puntata o per la stagione successiva. Insomma, un motivo caratteristico delle serie tv è l’attesa. E questo coinvolgimento ha anche un lato negativo: la cancellazione o semplicemente la fine di una serie televisiva è molto spesso un duro colpo che richiede uno o due giorni di reclusione per essere metabolizzato. Giorni trascorsi a pensare «perché proprio la mia serie preferita?».

Sherlock, una serie in onda sulla BBC dal 2011, costituisce il perfetto esempio dei rischi che può comportare il trasferimento sul piccolo schermo di un classico. Come suggerisce il titolo, il programma è un adattamento dei romanzi di Sir Arthur Conan Doyle, autore conosciuto in tutto il mondo per aver ideato un personaggio completamente unico nel suo genere, un genio in tutto e per tutto, un uomo tanto intelligente quanto oscuro e complesso. Sherlock Holmes, con il suo fedele collaboratore Dr. John Watson, personaggio che ha assunto il ruolo di icona della letteratura gialla, è stato già oggetto di varie trasposizioni cinematografiche e non: tanto per fare un esempio, la prima immagine che ci può venire in mente è quella dell’attore Robert Downey Jr. che ha interpretato il brillante investigatore nei due film diretti da Guy Ritchie. Sono molti, dunque, i rischi che si corrono nel voler creare una serie televisiva incentrata su questa figura decisamente innovativa e aumentano se la trasposizione viene ambientata, con un salto temporale di più di cento anni, ai giorni nostri. Ma queste difficoltà non sono bastate a dissuadere Steven Moffat e Mark Gatiss, ideatori e produttori di Sherlock, ad adattare i racconti più celebri di Conan Doyle ad una realtà moderna, completamente diversa dall’ambientazione originale, la Londra di fine XIX secolo. Il rischio è molto alto: basta una piccola disattenzione per far sembrare un bel prodotto un’enorme forzatura. Fortunatamente questo non è ancora accaduto: la strabiliante deduzione dell’investigatore, i suoi tratti particolari, l’ironia, la sua ampia conoscenza, i suoi complessi ragionamenti vengono decisamente rispettati e per niente penalizzati. In particolare il metodo deduttivo di Sherlock, il suo tratto più peculiare, viene tratteggiato in maniera innovativa, con l’ausilio degli effetti speciali moderni, che mostrano sullo schermo i processi che avvengono all’interno della mente del detective: informazioni che scorrono e vengono selezionate o scartate, dati che compaiono nei minimi dettagli, processi cognitivi che vengono concretizzati davanti ai nostri occhi… un metodo robotico, insomma, tipico più del computer che degli esseri umani.

Ad aggiungere quel tocco in più alla serie sono anche gli ottimi attori: Benedict Cumberbatch (candidato all’Oscar per l’interpretazione di Alan Turing in The Imitation Game) ha fatto decisamente un ottimo lavoro, rivestendo i panni, non poi così semplici, di un uomo unico nel suo genere. Lo stesso vale per il collega Martin Freeman (apparso nella serie tv Fargo oltre che nell’adattamento cinematografico del romanzo di Tolkien, Lo Hobbit) che interpreta John Watson.

In particolare, è la chimica che c’è fra i due a rendere la loro recitazione ancora migliore; infatti gli ideatori hanno voluto porre l’accento sul rapporto, oggetto spesso di discussione, tra i due personaggi, trasformandolo in qualcosa di più che semplice partnership o amicizia, nascondendo indizi velati di qualcosa di più profondo e significativo, che li lega in maniera incondizionata e che aggiunge un forte carico sentimentale ad alcune scene.

Gli episodi sono ricchi di umorismo, ironia, suspense e dramma, sono movimentati e mai troppo lenti o banali. Si tratta dunque di una serie tv decisamente degna di essere vista e seguita, a patto che si riesca a sopportare l’attesa, come dicevamo prima: ciascuna stagione è composta infatti da tre miseri episodi, della durata di un’ora e mezza ciascuno, che di solito si chiudono con sorprendenti colpi di scena. E tra la messa in onda di una stagione e quella della stagione successiva possono trascorrere due anni, se non di più.

Un’ottima serie televisiva, dunque, che potrebbe migliorare ancora di più se quei due anni si riducessero o se le puntate aumentassero, in modo da non costringere chi la segue a strapparsi i capelli durante l’attesa!