40 anni dopo il Nobel a Montale, le Cinque Terre celebrano il loro cantore

«For his distinctive poetry which, with great artistic sensitivity, has interpreted human values under the sign of an outlook on life with no illusions»

Per la sua caratteristica forma poetica che, con grande sensibilità, ha interpretato i valori umani nella prospettiva di una vita senza alcuna illusione.

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La consegna del Nobel a Eugenio Montale, 12 dicembre 1975. Credits: ospitiweb.indire.it

Questa la motivazione con cui il Nobel per la Letteratura 1975 fu assegnato ad Eugenio Montale: indimenticabile il discorso del poeta italiano all’atto di ricevere il prestigioso riconoscimento, in un certo senso summa del pensiero elaborato in una vita di riflessione sulla possibilità stessa di fare poesia.
Fu il vate della «divina Indifferenza» e del «male di vivere» e uno tra gli intellettuali più influenti del Novecento, secolo di cui fu anche un critico disilluso e feroce. A quarant’anni di distanza dalla cerimonia di consegna del premio, Montale viene celebrato dalle sue Cinque Terre, scenario della sua infanzia nonché di numerose sue liriche, con una rassegna culturale di quattro giorni.

«Piacere Montale. Gente vino e rocce delle Cinque Terre», ispirato al titolo del primo articolo scritto dal poeta per il Nuovo Corriere della Sera, uscito il 27 ottobre 1946, è, nelle intenzioni degli organizzatori, non solamente un omaggio a uno dei più celebri cantori di alcuni tra i luoghi più belli d’Italia, non a caso sede di un parco nazionale, bensì anche un tentativo di riavvicinare abitanti e turisti a queste zone: a letture e proiezioni, dunque, si affiancano escursioni e degustazioni; la maggior parte degli eventi si tiene nel piccolo borgo di Monterosso al Mare, che ospita la casa di villeggiatura dei Montale (non visitabile, in quanto privata).

La kermesse si è aperta ieri, 11 dicembre, con il convegno «Montale e le Cinque Terre», un’analisi del rapporto del poeta con il territorio, vero e proprio protagonista di molti componimenti, con ospiti illustri, tra cui Bianca, figlia del fratello di Montale e docente universitario e l’attrice Anna Bonaiuto, che ha chiuso la giornata nel migliore dei modi, con la lettura di liriche e scritti del poeta e si chiuderà domani, 13 dicembre, con «Montale nei racconti dei monterossini», un tributo della gente del paese che ancora ricorda il passaggio di un uomo che tanto ha amato la loro terra da immortalarla in eterno in poesie indimenticabili.

Recensione: le “Donne” tra le righe di Camilleri

La figura femminile ha una rilevanza particolare in tutti i romanzi di Andrea Camilleri, ma soprattutto è da lui raccontata in maniera sempre unica e diversa.

Nel suo libro del 2014, intitolato appunto Donne, Camilleri ci racconta 39 differenti incontri provenienti dal suo passato o dalla sua immaginazione, che l’hanno poi ispirato nella creazione dei suoi personaggi del gentil sesso. Possiamo definire questo manoscritto come una «diversa autobiografia»: l’autore ripercorre gli anni della sua giovinezza attraverso tutte le donne che hanno segnato il suo cammino e a ciascuna di loro dedica un capitolo breve, che pure racchiude in sé la forza di ogni singolo sguardo, pensiero e movimento, che sono la chiave di lettura di quest’opera.

Sono ricordi di momenti a volte divertenti, a volte commoventi e altre volte passionali, tuttavia raccontati in modo spiritoso e leggero; sebbene in alcune circostanze, più personali, è facile notare una vena quasi di malinconia per quello speciale amarcord.

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Donne di Andrea Camilleri. Credits: bookrepublic.it

Angelica: non solo quella di Ariosto, ma anche Angelica Balabanoff, la grande rivoluzionaria russa che l’autore incontra in un bar. Francesca: trentenne e dirigente unica di una fabbrica, che però non si è mai ripresa dalla fuga del marito. Ingrid: disinibita studentessa svedese, la cui storia termina con la rivelazione «Ed è in omaggio alla libertà, alla spontaneità e alla pulizia morale di Ingrid che ho voluto che l’amica straniera del mio commissario Montalbano fosse svedese e si chiamasse come lei». Ninetta: anonima ragazza che aspettava la fine della guerra, la caduta del fascismo e che nel 1961, finalmente, potè iniziare a sorridere. Venere: degna del nome che portava sia per la bellezza fisica sia per il carattere ammaliatore simile alla dea. Ogni storia tenta di mettere in luce un aspetto diverso di ogni donna: un tratto di follia, una vena misteriosa, un carattere inebriante, uno sguardo di profonda intimità, una bellezza diversa, un sorriso penetrante, una fragilità nascosta. Caratteristiche e personaggi differenti, a volte diametralmente opposti, in cui le lettrici riusciranno comunque ad identificarsi.

«Sinceramente non avrei mai pensato di pubblicare un libro così intimo sulla figura della donna, ma altrettanto sinceramente non avrei mai pensato che in Italia nel 2013 fossimo costretti a varare una legge contro il “femminicidio”.»

Così Andrea Camilleri chiude la Nota dell’Autore in fondo al libro. Nonostante in tutta probabilità, non sia stata letta da alcuni lettori poiché non considerata parte del racconto, è proprio quel luogo del testo ad esprimere la più grande provocazione del romanziere verso il mondo in cui viviamo oggi: in poche righe, oltre a spiegare di cosa parla il suo lavoro, egli intende farci cogliere il motivo che l’ha spinto a parlare di donne. Sicuramente, porsi come scopo quello di fermare tutti gli atti di femminicidio o contro le donne avvenuti degli ultimi anni sarebbe stato utopistico, anche per un grande scrittore come lui. È tuttavia innegabile che Andrea Camilleri sia sempre stato un autore vicino ai fatti di cronaca del nostro paese. Perciò, persino in questa situazione ha voluto esprimere la sua opinione, forse in modo più personale, più metaforico, eppure costantemente attento a racchiudere un pensiero che va al di là della singola storia raccontata, attento a racchiudere ogni donna tra le righe.

Intervista a Fabio Visintin, il vincitore di Lucca Comics

Parliamo di fumetto, la nona arte, ambito artistico che riesce a conciliare sapientemente immagine e scrittura. Sempre ingiustamente snobbato e sottovalutato, il fumetto è stato seriamente preso in considerazione soltanto da poco tempo, nonostante sia una realtà molto vasta che comprende artisti, imprenditori e commercianti. Qualche mese fa a Padova ha aperto un nuovo negozio, Fumetti & Soda, che sta già creando un certo seguito grazie a interessanti iniziative, come ospitare autori celebri o emergenti nel campo. Proprio in una di queste occasioni, lo scorso 28 novembre, Fumetti & Soda ha ospitato Fabio Visintin, autore di un certo calibro che quest’anno con la sua ultima opera Natali neri e altre storie di guerra si è portato a casa ben due premi prestigiosi, il primo posto sia al «Comicon» di Napoli sia al «Lucca Comics». Si tratta di due tra le fiere più importanti del settore, tanto in ambito italiano, quanto in ambito internazionale, in particolare la seconda. Non potevamo farci sfuggire l’occasione per una breve intervista.

Nella sua decennale carriera ha collaborato con riviste italiane di fumetti molto importanti, dallo storico Corriere dei piccoli al rivoluzionario e avanguardistico Frigidaire, ma negli anni ha lavorato anche in ambiti estranei al fumetto. Cosa rappresenta la nona arte per lei e come vi è approdato?

Io in realtà ho cominciato con il fumetto poi però, per questioni legate anche al fatto che questo lavoro aveva sempre meno spazio in Italia, ho dovuto consolidare la mia attività di illustratore di libri e dedicarmici sempre di più. Quindi anche attualmente il 90% della mia attività lavorativa è legata all’illustrazione, come copertine o come libri illustrati. Però, in fondo, ho sempre avuto la passione per il fumetto che per un periodo della mia vita è stata l’attività che svolgevo di più, in particolare quando partecipavo con il Corriere dei piccoli che, essendo un settimanale, bruciava molto materiale. Ora, invece, quando posso mi dedico al fumetto con opere però di cui sono al 90% autore e nonostante io sia ancora un grande lettore di fumetti ormai me ne occupo molto meno da autore seriale, perché mi interessa l’aspetto più legato alla sperimentazione grafica.

Parliamo dell’opera vincitrice di «Lucca Comics», la graphic novel Natali neri e altre storie di guerra: come nasce?

Quest’opera ha un’origine molto definita, poiché raccoglie un’antologia di nove racconti, genere che io amo molto, che erano già stati pubblicati all’interno della rivista mensile AnimalS, periodico molto particolare che mescolava letteratura e fumetto dando ad entrambi stesso spazio e stesso peso. In questo caso mi è stata data l’opportunità di trattare temi un po’ insoliti per il fumetto e che, quindi, potessero spaziare con la massima libertà. Inoltre nel volume è stato inserito, per completare l’opera, un racconto inedito, che è quello che poi dona il titolo all’opera, Natale nero per l’appunto. È una raccolta che oltre ad avere vita lunga poi è stata anche molto fortunata quest’anno.

Quindi Natali neri è una raccolta di storie: quale filo conduttore le lega?

In parte il filo conduttore può essere identificato con la guerra, intesa non come vero e proprio conflitto: nei vari racconti, infatti, si analizzano situazioni estreme, quei momenti di sospensione del tempo in cui le persone sono proprio se stesse e, quindi, le reazioni dei personaggi a situazioni di questo tipo. Oltre a questo si può vedere anche un filo più scherzoso, perché quando lavoravo per il mensile dove i racconti sono stati pubblicati mi veniva anche chiesto, in occasioni particolari come il racconto di Natale, di usare un tono più ironico.

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Natali neri e altre storie di guerra di Fabio Visintin. Credits: afnews.info.

In Natali neri ma anche nella sua opera precedente, L’isola, si nota molto che i suoi lavori sono permeati della letteratura più classica. È forse questa la sua maggiore fonte d’ispirazione?

Penso proprio di sì, anche perché oltre che per il mio lavoro, grazie al quale ho molto a che fare con i libri (lavorando spesso in case editrici), rappresenta anche una grande passione. Quindi oltre a essere una forte fonte d’ispirazione, trovo anche che ci sia un certo gusto nell’utilizzare un linguaggio come questo, che non ha limiti: può raccontare qualsiasi cosa, in un ambito che anche per questioni anagrafiche mi è più congeniale. Perciò i miei fumetti in genere hanno meno riferimenti di settore e spaziano in altri ambiti. Poi, più in generale, ho trovato interessante ciò che hanno scritto recensendo un mio lavoro, cioè che le mie opere nascono da una trovata surreale che serve sempre per spiegare la realtà.

Lei è nato a Venezia, patria di uno tra i più grandi autori di fumetti al mondo, Hugo Pratt. È stato per caso fonte di ispirazione per lei e, in generale, quali antecedenti possiede il suo stile molto riconoscibile?

Dal punto di vista grafico sono stato ispirato da moltissimi, mentre dal punto di vista della narrazione sono sicuramente molto «prattiano». Pratt è stato la mia scuola, ma non solo: il suo modo di narrare è sempre stato quello che mi ha ispirato di più, con la sua scansione e i suoi ritmi del racconto. In generale, mi definisco un onnivoro, mi piace di tutto, da Schultz a I puffi. Dal punto di vista visivo ho avuto molte influenze anche da ambiti esterni al fumetto, dall’illustrazione alla pittura; tra i tanti artisti, mi viene in mente Balthus per le atmosfere e le luci. E poi, come dico ai ragazzi della Scuola internazionale di Comics, dove tengo lezioni, non si può fare a meno di prendere ispirazione da qualsiasi cosa che vediamo e che ci piaccia. «I grandi artisti non copiano, rubano» per dirla come Picasso.

Ci può parlare de La bella e la bestia, l’opera presentata a Lucca in edizione limitata?

La bella e la bestia è un racconto che avevo pubblicato qualche anno fa sempre su una rivista di fumetti; siccome era piaciuto molto, l’editore ha voluto stamparlo in questa nuova edizione lussuosa. Anche questa è un’opera molto letteraria che nasce dalla mescolanza di due storie: quella classica di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont e quella di Angela Carter, versione che ho molto amato, oltre al fatto che apprezzo molto l’autrice: un suo testo teatrale è stato fonte d’ispirazione per la mia prima graphic novel.

I vincitori dei National Book Awards, il premio letterario USA

Si è svolta il 18 novembre scorso, a New York, la cerimonia di premiazione dei vincitori della 66o edizione dei National Book Awards, un premio letterario statunitense istituito nel 1950 dalla NBA (National Book Foundation) con lo scopo di celebrare e promuovere il meglio della letteratura made in USA. Quattro giurie, composte da scrittori e critici autorevoli, selezionano e nominano un vincitore per altrettante categorie: Narrativa, Saggistica, Poesia e Letteratura per ragazzi. Le opere vincitrici dell’edizione di quest’anno sono rispettivamente: Fortune Smiles di Adam Johnson, Between the World and Me di Ta-Nehisi Coates, Voyage of the Sable Venus di Robin Coste Lewis e Challenger Deep di Neal Shusterman. In aggiunta a questi riconoscimenti, sono stati altresì consegnati da parte del Board of Directors della NBA due premi alla carriera: la Medal for Distinguished Contribution to American Letters a Don DeLillo («for a diverse body of work that examines the mores of contemporary modern American culture and brilliantly embeds the rhythms of everyday speech within a beautifully composed, contoured narrative») ed il Literarian Award for Outstanding Service to the American Literary Community a James Patterson («for his contributions to the vitality of American literary for his contributions to the vitality of American literary culture»).

National Book Awards. Credits: flickr.com

Di seguito, una breve introduzione alle quattro opere vincitrici e ai loro autori.

Adam Johnson, nato in South Dakota nel 1967, è scrittore e professore associato di scrittura creativa presso la Stanford University. Con il suo racconto del 2012 The Orphan Master’s Son, ambientato in Corea del Nord, ha vinto il Premio Pulitzer nell’anno seguente. La sua opera, Fortune Smiles, è una raccolta di sei storie dove compaiono, tra gli altri, un ex-aguzzino della Stasi che nega il proprio passato, un ragazzo in cerca della madre di suo figlio in una Louisiana devastata dagli uragani, due disertori di Pyongyang che cercano di adattarsi a Seoul e un programmatore che trova consolazione solo nell’avatar del Presidente degli Stati Uniti.

Ta-Nehisi Coates, nato a Baltimora nel 1975, è giornalista (corrispondente fisso per l’Atlantic e collaboratore in molte importanti testate) e scrittore. Between the World and Me è una lettera scritta al figlio quindicenne, Samori, in cui affronta il tema del razzismo: dalla tratta degli schiavi, alle forme istituzionalizzate di discriminazione, a cosa significa essere un adolescente nero americano ai nostri giorni.

I vincitori. Credits: mashable.com

Neal Shusterman, nato a New York nel 1962, è autore di racconti per giovani adulti, nonché scrittore e sceneggiatore di film e show televisivi. Challenger Deep è un romanzo per ragazzi sulla la storia di Caden Bosch, un ragazzino che inizia a manifestare i sintomi della schizofrenia. Racconta cosa succede nella testa di Caden e cosa, invece, nella realtà esterna: lui immagina di iniziare un viaggio su un vascello verso il centro della terra; la sua famiglia, invece, nota un comportamento sempre più incomprensibile. Alla fine Caden viene ricoverato in ospedale per sottoporsi alle cure. Il libro è ispirato alla storia vera del figlio dell’autore, Brendan, a cui venne diagnosticata la schizofrenia quando aveva 16 anni. Ora ne ha 26 e riesce a tenere sotto controllo la malattia e a vivere una vita normale. Nel libro sono presenti anche 12 disegni realizzati dallo stesso Brendan.

Robin Coste Lewis, nata in California, è docente alla University of Southern California e Voyage of the Sable Venus è la sua prima raccolta di poesie: è una riflessione sull’idea e l’immagine della donna nera in Occidente, nei secoli. La poesia da cui la raccolta prende il nome è composta soltanto da nomi di opere d’arte, del passato e dei nostri giorni, che descrivono come le donne nere sono state considerate, descritte e immaginate nel tempo.

Chi ha paura del gender? Incontro con Michela Marzano

Un approfondimento sul genere, l’orientamento sessuale, il sesso biologico, la maternità e le stepchild adoptions.

Risulta sempre più difficile, in questi ultimi mesi, parlare di tematiche come genere, orientamento sessuale, transessualità; quando poi si affrontano, si nota in molti casi una certa superficialità o, cosa ancor peggiore, parecchia confusione.
I fatti di cronaca, inoltre, non fanno altro che confermare l’ovvio ma inquietante rapporto tra l’ignoranza data da un approccio acritico e le
discriminazioni. E queste spesso sono anche violente: la settimana scorsa a Parigi un branco di omofobi ha pestato due ragazzi mentre uscivano da un locale, solamente perché gay e innamorati. È solo il più recente di una continua serie di atti deplorevoli e disumani che macchiano la nostra società – quella che dovrebbe essere laica, civile, tollerante, secondo quanto insegnatoci dai padri dell’Illuminismo, dalle Rivoluzioni americana e francese, dalle guerre mondiali, dall’orrore dei regimi totalitari.
Invece siamo ancora alla ricerca del «diverso» su cui riversare le nostre nevrosi, poco importa che sia ebreo, di pelle scura, di fede mussulmana o cristiana (sono duecento milioni i cristiani perseguitati nel mondo, per dire).

Ci sono però degli strumenti di conoscenza che possono aiutarci a prevenire le discriminazioni, a combattere i pregiudizi e, più in generale, a fare chiarezza anche nella mente di coloro che, pur non discriminando nessuno, non conoscono ciò di cui parlano quando nominano certi termini, come ad esempio «gender» o «ideologia gender».

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Michela Marzano. Credits: tralaltro.it

Una ricerca accurata sul web o nelle biblioteche può essere certo d’aiuto; un altro di questi strumenti è il nuovo libro di Michela Marzano, Papà, mamma e gender, presentato nelle aule universitarie di palazzo Bo, a Padova, il 14 novembre scorso.
L’autrice è mossa proprio dall’intento di superare la crescente confusione di termini e di concetti nell’ambito dell’omosessualità e propone un breve glossario alla fine del saggio per diradare i dubbi. In sostanza, si ribadisce il fatto che l’orientamento sessuale (ad esempio,il fatto che un ragazzo sia attratto da una ragazza o da un altro ragazzo o da entrambi) non è mai connesso con la natura biologica (maschile o femminile) né con l’identità di genere.

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Recensione: Scettro d’oro o dominio di ferro? di Florio Scifo

Quando si parla di fantasy è inevitabile pensare a J.R.R. Tolkien, autore de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit, titoli molto conosciuti e che hanno fatto la storia di questo genere letterario purtroppo ritenuto minore e relegato alla classificazione di letteratura di genere per ragazzi.

Spesso considerati come letteratura d’evasione, i lavori di questo professore di Oxford sono stati, e sono tutt’ora, sottovalutati e screditati per le tematiche trattate. Dietro le opere di Tolkien, in realtà, c’è qualcosa di molto più complesso ed elaborato della semplice immaginazione fantastica: esse sono infatti frutto di un lavoro intenso e preciso che rielabora elementi della tradizione nordica e classica insieme a richiami alla religione cristiana e alla secolare tradizione fiabesca.

Il saggio di Florio Scifo, Scettro d’oro o dominio di ferro? Le armate della fantasia. Una rilettura di J.R.R. Tolkien, si ripropone di analizzare i lavori più importanti e conosciuti di questo grande autore e di dimostrare che essi hanno «un substrato culturale che affonda profondamente le sue radici nella nostra civiltà europea e propugna dei valori che hanno carattere universale: perciò possono essere considerati a buon diritto un vero e proprio classico della letteratura».

Un compito non proprio facile, quindi, quello di cui si fa carico l’autore di questo saggio. Florio Scifo è un ragazzo di appena vent’anni che dimostra la sua propensione e passione verso gli studi classici già dal liceo e che coltiva, poi, durante il suo percorso universitario: ha vinto, infatti, nel 2011 il primo premio al concorso nazionale Dialoghi di Filosofia dell’Università Pontificia Salesiana di Roma e ha partecipato nel 2013 al Certamen Ciceronianum Arpinas, il concorso di traduzione latina.

Scettro D'Oro O Dominio Di Ferro

Credits: aipsa.com

Una vera e propria dedizione verso la classicità, quella del giovane studente, fortemente presente anche in questo suo lavoro di approfondimento e di riscatto a favore di un riconoscimento del valore dell’opera di Tolkien. Dopo una breve premessa, in cui viene esposto lo scopo dello scritto, Scifo analizza le opere più importanti di Tolkien (Il Silmarillion, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli), raccontandone la trama e analizzandone i temi tenendo conto di «tre elementi di fondamentale importanza: la connessione con le precedenti Mitologie (Classica, Nordica e Medioevale), il rapporto implicito con il Cristianesimo e le esperienze di vita dell’autore», a volte servendosi anche di lettere e citazioni tratte da altri lavori dello stesso autore.

Ecco, per esempio, che l’immagine dell’Anello, usata sia ne Lo Hobbit che, successivamente, nella trilogia de Il Signore degli Anelli, si richiama al mito nordico dei Nibelunghi dove «si racconta di un anello, posseduto da un nano Nibelungo che, come l’anello di Sauron, concedeva poteri paranormali, ricchezze e una lunga vita».

È spesso ricorrente, all’interno delle opere, anche la contrapposizione tra Bene e Male, tra l’Eroe che si immerge in un’avventura piena di insidie per salvare l’umanità e l’Antagonista che lo ostacola: entrambi elementi cardine all’interno di testi riconducibili alla tradizione fiabesca e a quella cristiana.

«Ne Il Silmarillion, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, la contrapposizione tra Bene e Male è vista in chiave religiosa e rispecchia l’idea secondo cui uno scrittore cristiano debba riprodurre il messaggio evangelico attraverso le proprie opere».

Emerge, dunque, un catalogo di significati allegorici riconducibili ai protagonisti di questi racconti, così intrisi di simbolismo e tradizione, e alle loro avventure che si fanno carico di valori filosofici profondi e importanti: Aragorn, coprotagonista de Il Signore degli Anelli, per esempio, «rappresenta l’immagine dell’Uomo nel modo in cui è stato concepito da Dio. Egli è, infatti, caratterizzato da doti di coraggio e saggezza che lo portano a essere superiore agli altri uomini e, soprattutto, a essere quasi immune dalle tentazioni del male provenienti dall’Anello».

Verso la fine del saggio, nel paragrafo intitolato Perché leggere Tolkien? viene espressa la constatazione che «raramente, come nel caso de Il Signore degli Anelli o Il Silmarillion, un’opera letteraria è passibile di così tante e disparate interpretazioni (morali, religiose, sociologiche, filologiche, psicologiche, politiche ecc.). Quest’ultimo elemento basterebbe, di per sé, a caratterizzare tali opere come classiche, dal momento che classico non indica ciò che è puramente antico, come superficialmente si crede ma, al contrario, qualsiasi cosa che abbia tante interpretazioni quanti sono gli uomini che, in ogni tempo, ad essa si rapportino».

Insomma, l’opera di Tolkien può essere decisamente considerata a tutti gli effetti un classico della letteratura e merita il suo giusto riconoscimento.

Tramite un’analisi competente e dettagliata e una prosa scorrevole, per niente pesante o noiosa, Scifo fornisce importanti interpretazioni su opere che costituiscono un caposaldo fondamentale della letteratura, dimostrandoci che il loro valore è molto più grande di quello che viene loro attribuito e fornendoci un’immagine molto più articolata e complessa del professore Tolkien e dei suoi scritti.

Recensione e intervista: Super Border Joy di Camilla Bottin

Il protagonista di questo divertente libro per ragazzi dagli 8 ai 12 anni è Joy, un affettuoso ed esuberante border collie che narra la sua vita – mica tanto «da cani» – dal momento in cui viene affidato alla sua famiglia umana alle prime gare di agility dog, dai giochi con la sua padrona Camilla a uno spassoso incontro con un gatto. I lettori, anche i più grandi, sono portati ad identificarsi nella sua continua scoperta del mondo circostante e nelle sue avventure più o meno piacevoli, come il momento del bagno a cui Joy tenta di sottrarsi in ogni modo.

Non importa la vostra età anagrafica: Super Border Joy saprà non solo farvi sorridere, ma anche riflettere sull’amore e sull’amicizia, sentimenti di cui tutti parliamo ma che forse diamo spesso per scontati.

Questo bellissimo cagnone di cinque anni esiste davvero, è un campione di agility ed è il migliore amico dell’autrice Camilla Bottin, giovane ma promettente scrittrice e giornalista padovana, che abbiamo avuto il piacere di intervistare.

Credits: aipsa.com

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Recensione: Annalena e le altre di Paola De Gioannis

Se si pensa a ciò a cui hanno assistito i nostri nonni, a ciò che hanno visto passare davanti ai loro occhi, a ciò che hanno vissuto, agli innumerevoli cambiamenti che hanno dovuto accettare, non si può che rimanere sconvolti. Il Novecento, infatti, è il secolo portatore degli eventi più importanti e sconcertanti della storia umana: dalle guerre mondiali alle trasformazioni sociali, da carro e buoi all’uomo sulla Luna, dalla rivoluzione dei valori all’avvento della più avanzata tecnologia.

È stata questa riflessione sul passato, probabilmente, ad ispirare il romanzo Annalena e le altre – Il Novecento con occhi di donna  di Paola De Gioannis (Aipsa Edizioni, collana Altre storie, € 14,00). Laureata in filosofia e diventata essa stessa docente di Filosofia, Letteratura Italiana e Storia, l’autrice mette a frutto tutta la sua abilità e la sua esperienza in problemi storici, focalizzandosi principalmente sulla sua città, Cagliari, che si fa anche ambientazione della narrazione.

Protagonista di questo racconto corale è Annalena, che narra in prima persona la propria storia, ma che si eleva a narratrice onnisciente della storia dei molti altri personaggi femminili che, figurando nella vicenda in modi diversi, danno voce e corpo allo sguardo di donna annunciato dal sottotitolo.
I toni, dunque, sono quelli del romanzo e lo stile alquanto femminile si evolve nel corso della lettura: si passa da un lirismo sentimentale ricco di echi ottocenteschi, che pur non manca di offrire espressioni ed immagini di particolare bellezza e originalità, ad un linguaggio ben più attuale e scorrevole, aperto alla riflessione, al ragionamento, al pensiero e all’interiorità dei personaggi. Maggiore importanza, in tal senso, è data alla protagonista Annalena, la quale sembra assumere il ruolo di un alter ego della scrittrice.

Credits: aipsa.com

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Come precedentemente accennato, accanto ad Annalena si sviluppa una foltissima schiera di altri personaggi, uomini e donne che danno dinamismo al racconto ma che, forse, inficiano un po’ la comprensione. Infatti, attraverso, una suspense gradita e ben costruita, si scopre man mano la relazione di Annalena con «le altre», tra rapporti di parentela, somiglianza o conoscenza, ed è proprio questo il maggior punto di forza del romanzo, ciò che fa divorare il libro senza esitazione.

Non così efficace è, invece, la scansione del tempo. Le storie delle donne sono raccontate troppo velocemente, con ellissi narrative e salti temporali che troppo spesso non sono ben evidenziati; perciò, appare debole il collegamento tra gli episodi della vita personale dei figuranti.  Infatti, se l’omogeneità del testo favorisce la lettura, la rassegna troppo rapida della biografia dei personaggi impedisce una piena identificazione del lettore (oltre a dare un senso di «favola della buonanotte», che potrebbe essere voluto ed apprezzato, come potrebbe anche non esserlo).

Queste considerazioni, portano ad affermare che il vero protagonista della vicenda non sia tanto Annalena, bensì la storia del XX secolo, con i suoi eventi che si inseriscono e stravolgono la vita delle persone. L’intento dell’opera non è tanto denunciare o, comunque, informare i lettori sulle condizioni della donna lungo la storia, anche se questo tipo di riflessione è presente nel testo. Non è analizzare il mondo interiore delle donne, tutte tra loro collegate, evidenziandone similitudini e differenze a seconda dell’epoca in cui vivono, seppure alcune tracce non manchino. L’intento dell’opera è proprio dar voce al peso che la storia collettiva, fatta di leggi, battaglie, guerre e rivolte, ha sulla storia personale. Ed è un intento senza dubbio elogiabile e perfettamente raggiunto da questo godibile libro della De Gioannis.

In Siria si cerca di ricominciare dai libri: l’iniziativa di Abu Malek a Daraya

La vita di ognuno è costituita da piccoli momenti, piccole azioni quotidiane che permettono all’uomo di andare avanti, sicuro nella sua routine. Ma quando c’è la guerra tutto viene meno. Oltre all’orrore e alla disperazione, l’uomo deve subire anche lo smarrimento in una situazione nuova, estranea ed estremamente pericolosa: fare la spesa, uscire con gli amici, andare a scuola o all’università e persino leggere un libro o guardare un film divengono azioni perdute se, come accade a Daraya, si è sotto attacco.

Daraya è una cittadina siriana nella periferia sud di Damasco, non molto grande o importante dal punto di vista economico, ma situata nella zona strategica vicino all’aeroporto di Mezzè. Per questo, da più di tre anni è assediata dalle forze militari del regime di Bachar el-Assad, (autore, tra le altre cose, del massacro di 400 persone nel 2012). Qui, ridare agli abitanti quelle piccole azioni perdute significherebbe restituire loro un po’ di vita.

E fortunatamente è quello che Abu Malek e i suoi compagni stanno facendo.
Tutto è iniziato con
il recupero di libri salvati dai roghi delle biblioteche e delle librerie o dalle macerie delle case demolite dai bombardamenti. Quei libri, poi, sono stati portati al sicuro in una cantina, dove sono stati catalogati per luogo di ritrovamento in modo che, finita la guerra, i proprietari possano venire a reclamarli. Dunque, un’iniziativa che non solo riporta la cultura nella vita della gente di Daraya, ma che dà speranza nel futuro.

Credits: Humans of Siria

Credits: Humans of Siria

Con l’aumentare dei volumi -tra letteratura araba e straniera, filosofia e teologia- fino a 11.000, quella cantina si è trasformata in una vera e propria biblioteca, in cui ogni opera è classificata secondo ordine alfabetico e per argomento su un preciso scaffale e in cui ci si riunisce per leggere, studiare o semplicemente discutere di libri, tra consigli di lettura e opinioni.

Insieme a giovani laureati e a ragazzi che, come lui, non hanno potuto terminare gli studi, Abu sta offrendo una piccola salvezza, seppur costituita dalla semplice introduzione di un argomento di conversazione diverso dai bombardamenti. La stessa salvezza che egli stesso ha trovato nel suo nuovo ruolo di mediatore culturale, uno scopo che lo salva dalla noia e dalla paura. Il suo attuale progetto è ampliare la collezione di film documentari visibili lì sul posto, che richiede, se non la bramata fine dei conflitti, un contributo economico immediato finché, purtroppo, la guerra permane.

Recensione: Written On The Body di Jeanette Winterson

L’amore è probabilmente uno dei temi più classici di sempre. Non esiste una forma d’arte che non abbia mai trattato almeno una volta questo sentimento così particolare e complesso, dai primi poeti del Duecento alla moderna narrativa, dalle classiche ballate rock alle canzoni pop più recenti. Innumerevoli romanzi hanno parlato e parlano tutt’oggi di amore: amore come fuoco, come passione incontrollabile, amore come follia, come magia incomprensibile.

E proprio per il fatto che moltissimi autori hanno fatto di questo tema il centro dei loro racconti, è molto difficile trovare, in epoca contemporanea, un romanzo originale e rivoluzionario, che si occupi di questa materia così antica e conosciuta, senza risultare banale e già visto.

E proprio questo è il caso di Written on the body (Scritto sul corpo), romanzo del 1992 che stravolge completamente l’idea dell’amore e la sua espressione, che smonta le convinzioni più banali nonché l’idea stessa del romanzo e della sua composizione, che regala emozioni concrete tramite un flusso di pensieri ininterrotto.

La storia è quella di un amore adultero che si consuma tra chi ci narra la storia e Louise, una donna sposata, che viene presentata mano a mano che il racconto va avanti, tramite piccole descrizioni fugaci, parole dette da lei stessa, vecchi luoghi comuni romantici (la pelle bianca come il latte, i capelli rossi fiammanti).

«If I were painting Louise I’d paint her hair as a swarm of butterflies. A million Red Admirals in a halo of movement and light.»

(Se dovessi dipingere Louise. dipingerei i suoi capelli come uno sciame di farfalle. Un milione di farfalle rosse in un alone di movimento e luce.)

Il romanzo risulta poco chiaro fin dall’inizio. Non si sa chi sia a raccontare la storia, il narratore è completamente sconosciuto; della sua vita non verrà mai detto niente di specifico, né il nome né –tantomeno- il sesso.

Infatti, uno dei caratteri specifici di quest’opera di Jeanette Winterson è lo stravolgimento della classica favola tra un uomo e una donna: il mistero riguardo l’identità del narratore riesce a mantenere vivo l’interesse del lettore, che cerca di rintracciare anche il più piccolo indizio tra le righe scritte, tutto pur di capire se l’amante di Louise sia un uomo o una donna.

Eppure non sarà mai rivelato, nemmeno con la conclusione del romanzo, proprio per l’intenzione da parte dell’autrice di smontare completamente le classiche convinzioni di genere, di far crollare quei muri ideologici così alti che differenziamo il sesso maschile da quello femminile.

booktopia.com.au

Credits: booktopia.com.au

Tra tutti i pensieri scollegati, compaiono molto spesso descrizioni del corpo di Louise, sia superficiali che più specifiche: mentre esce dall’acqua, nei suoi momenti più intimi e personali.

Circa a metà del romanzo comincia, poi, un tipo di narrazione completamente nuova, quella scientifica e specifica, caratterizzata da metafore originali sul corpo umano: poco prima che inizi questa parte, si è infatti informati che Louise è malata di leucemia. Da qui, l’intento del suo amante sarà raccogliere più informazioni possibili sulla malattia, cercando fra libri ed enciclopedie, nella disperata ricerca di comprensione.

«Will you let me crawl inside you, stand guard over you, trap them as they come to you? Why can’t I dam their blind tide that filthies your blood? Why are there no lock gates on the portal vein? The inside of your body is innocent.»

(Mi lascerai strisciare dentro di te, farti da guardia, intrappolarle [le cellule malate] mentre arrivano? Perché non posso sbarrare il loro cieco flusso che sporca il tuo sangue? Perché non ci sono cancelli a sbarrare l’ingresso delle vene? L’interno del tuo corpo è innocente.)

Quello che viene proposto al lettore è un gioco creativo decisamente originale:  non possiamo nemmeno essere sicuri che questo libro appartenga al genere letterario sopra citato, vista la sua mancanza di linearità, la presenza di frasi completamente scollegate, liriche, che costituiscono una serie di pensieri messi in fila uno dopo l’altro, quasi come in un flusso di coscienza.

Ecco un altro punto di svolta di questo libro: il suo non appartenere ad un genere preciso, il rompere gli schemi e la tradizione, inserendo elementi così sconosciuti e atipici da proporre al pubblico qualcosa di completamente nuovo. Tanto che nelle prime pagine, la Winterson non fa altro che sciorinare una serie di cliché tipici della narrazione amorosa, elencandoli nella sua banalità e sgretolandoli uno ad uno.

«Love demands expression. It will not stay still, stay silent, be good, be modest, bee seen and not heard, no. It will break out in tongues of praise, the high note that smashes the glass and spills the liquid. It is no conservationist love. It is a big game hunter and you are the game. How can you stick at a game when the rules keep changing? I shall call myself Alice and play croquet with the flamingoes. In Wonderland everyone cheats and love is Wonderland isn’t it? Love makes the world go round. Love is blind. All you need is love. Nobody ever died of a broken heart. You’ll get over it.»

(L’amore richiede espressione. Non rimarrà fermo, in silenzio, non sarà buono, modesto, non sarà visto e non sentito, no. Irromperà in canti di lode, la nota più alta che rompe il bicchiere e fa versare il liquido. Non è un conservatore, l’amore. È un grande cacciatore e noi siamo la preda del suo gioco. Come puoi continuare a giocare se le regole cambiano in continuazione? Mi chiamerò Alice e giocherò a croquet con i fenicotteri. Nel paese delle meraviglie tutti imbrogliano e l’amore è un po’ come il paese delle meraviglie, non è vero? L’amore fa girare il mondo. L’amore è cieco. Tutto ciò di cui hai bisogno è amore. Nessuno è mai morto per un cuore spezzato. Lo supererai.)

Sono parecchie, dunque, le caratteristiche che rendono quest’opera qualcosa di unico nel suo genere, che fanno venir voglia di leggerla tutta d’un fiato, fino ad innamorarsene: le sue parole intense, il mistero sull’identità del protagonista (o della protagonista) che, nonostante il suo «essere senza volto» riesce a catturare nel suo vortice di pensieri chiunque si appresti a leggere le sue parole, spingendo ad immedesimarsi nella sua persona, maschile o femminile che sia, e a vivere insieme questo amore così intenso e profondo.

«To lose someone you love is to alter your life forever. You don’t get over it because ‘it’ is the person you loved. The pain stops, there are new people, but the gap never closes. How could it? The particularness of someone who mattered enough to grieve over is not made anodyne by death. This hole in my heart is in the shape of you and no one else can fit it. Why would I want them to?»

(Perdere qualcuno che ami ti sconvolge la vita per sempre. Non riesci a superarlo, perché si tratta della persona che amavi. Il dolore si ferma, ci sono nuove persone, ma quella distanza non si chiuderà mai. Come potrebbe? La peculiarità di qualcuno che significava così tanto da essere rimpianto non è anestetizzata dalla morte. Questo buco nel mio cuore ha la tua forma e nessun altro può riempirlo. Perché dovrei volere che qualcuno lo riempisse?)